Il modello riconosciuto per ciò che è accaduto in piazza del Quirinale è la famosa serata dell’Hotel Raphael (30 aprile 1993), quella del lancio di monetine contro Bettino Craxi. Al netto delle inevitabili battutine con la crisi come sfondo (Enrico Mentana domenica sera: “Rispetto a 18 anni fa le monete sono di meno”, ripreso immediatamente da Fiorello lunedì sera: “Questa volta la gente le monetine, dopo averle lanciate, se le andava a riprendere!”), ciò che colpisce è l’automatismo immediato dell’associazione. Anche al di là dell’evidenza empirica. Vale a dire: basta una folla, un momento storico, un leader che cade et voilà, sono la stessa cosa.
Questo gioco si svolge, come si è detto, sul terreno – a noi piuttosto familiare – delle immagini. Non conta il fatto che le due atmosfere fossero (come non hanno mancato di notare gli osservatori più attenti, che tra l’altro erano lì) sostanzialmente diverse: tanto livida e livorosa la prima, quanto sfottente e chiaramente innocua la seconda. Le immagini servono da veicolo e da traino per la nostalgia; agganciano un’epoca all’altra, saltando a pié pari le trasformazioni storiche e le differenze macroscopiche.
Ciò è, chiaramente, in gran parte inevitabile. Come ha scritto Giorgio Agamben: “La storia dell’umanità è sempre storia di fantasmi e di immagini, perché è nell’immaginazione che ha luogo la frattura fra l’individuale e l’impersonale, il molteplice e l’unico, il sensibile e l’intellegibile e, insieme, il compito della sua dialettica ricomposizione. Le immagini sono il resto, la traccia di quanto gli uomini che ci hanno preceduto hanno sperato e desiderato, temuto e rimosso. E poiché è nell’immaginazione che qualcosa come una storia è diventata possibile, è attraverso l’immaginazione che essa deve ogni volta nuovamente decidersi” (in Ninfe, 2007).
Quello che non è inevitabile, però, è affidarsi unicamente alla nostalgia come chiave di lettura dei fatti e delle mutazioni. Come agisce la nostalgia? Recide i collegamenti e i rapporti di causa-effetto tra gli eventi e tra le epoche. Il che vuol dire, per esempio, che non ci consente di vedere il presente come risultato – non inevitabile, tra l’altro – del passato. Uniformando al presente il passato, ne espelle gli elementi più disturbanti, quelli che non sono coerenti con l’oggi e che non si incastrano perfettamente con le condizioni attuali (cioè: quelli più interessanti, e potenzialmente fertili).
La nostalgia uniforma tutte le dimensioni temporali (passato-presente-futuro), in un’unica melassa che possiamo chiamare “presente perpetuo”, “eterno presente” o come vi pare. La sostanza, il messaggio trasmesso ad ogni livello è sempre lo stesso: “È stato e sarà sempre tutto uguale ad ora, ed è inutile che vi affanniate a trovare il modo di cambiare la realtà: è impossibile.”
Ora, che c’entrano le immagini con tutto ciò? È inutile ricordare che la nostalgia, oltre ad essere la piattaforma fondamentale su cui ha operato di fatto l’intera produzione culturale degli ultimi trent’anni, è anche il tic preferito della società italiana degli ultimi anni e decenni. Non è un caso che, quasi ogni giorno, e con foga crescente negli ultimi mesi, ci sia un politico che affermi: “non torneremo agli anni Settanta”, oppure “stanno per tornare gli anni Settanta” (fa lo stesso). La nostalgia pervade il linguaggio pubblico e privato, le forme e le espressioni artistiche (e qui lo sappiamo molto bene, altroché…), il look e gli show televisivi. E soprattutto, la nostalgia pervade le immagini prodotte e fruite, individualmente e collettivamente, privatamente e pubblicamente.
L’Italia è ossessionata dai suoi fantasmi, e dai fantasmi delle sue immagini.
Nostalgico è il modo di percepire il mondo. Anzi, il mondo troppo spesso pare essere andato avanti – nel bene e nel male – senza di noi, che rimanevamo placidamente inconsapevoli, rinchiusi nella prigione mentale della Penisola-casetta: un po’ come la famigliola di The Others, il film diretto nel 2001 da Alejandro Amenábar. Nostalgiche sono le griglie di interpretazione attraverso cui la stragrande maggioranza della nostra classe dirigente ‘legge’ (o fa finta di leggere) le trasformazioni della realtà. Persino l’ottantaseienne fresco Eroe della Patria e Nostro Salvatore Benedetto, Giorgio Napolitano, se n’è accorto di recente, dicendo qualcosa del genere: “Uno dei problemi principali dell’Italia è che troppi si comportano come se fosse il 1984”. Folgorante, no?
Perciò è così importante, proprio oggi che (forse) si sta affacciando una nuova epoca per il nostro Paese, alla cui difficile nascita e crescita noi che eravamo bambini o adolescenti nel 1993 dovremo contribuire – altrimenti è inutile poi lamentarsi e recriminare – tirare fuori dalla cultura visiva a cui siamo esposti ogni ora e ogni minuto le informazioni-chiave che essa contiene, anche e soprattutto al di là delle intenzioni che essa dichiara. Lì dove si annidano le connessioni, neanche tanto segrete, tra immagini e immaginario.
Tra l’altro, questo può essere un buon modo (uno dei tanti) per far uscire l’arte e lo sguardo sull’arte dal recinto in cui si sono chiusi, per scelta, circa una trentina di anni fa.
Christian Caliandro
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