Maurizio Cattelan: l’Apocalisse dello sguardo
L’installazione di Cattelan al Guggenheim come il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis. Una messa in scena che terrorizza e diverte allo stesso tempo. E si fa specchio di un’Italia ormai perduta, assorta sul ciglio del baratro. Ludovico Pratesi firma una riflessione a tutto campo sulla mostra del Maurizio nazionale. E non solo.
Ci sono tutti, dal Papa schiacciato dal meteorite all’elefantino coperto dal lenzuolo, fino a quel piccolo scoiattolino suicida, che forse è stato l’inizio di questo corteggiamento con la morte che scorre sottotraccia in tutta la sua opera. Eppure, illuminate dalla luce naturale che piove dall’oculus del Guggenheim a rivelare la vera essenza del Pantheon di Maurizio Cattelan, queste opere si trasformano in qualcosa di tristemente maestoso, e diventano una visione tragicomica, e forse profetica dell’Italia in questo inquietante novembre 2011. Qualcosa che parla di un futuro sospeso tra l’incubo del default e la speranza di una possibile rinascita, appeso a un filo come papi e bambini, cani e galleristi, che mi ricordano i personaggi del Trionfo della Morte, un incredibile affresco quattrocentesco conservato al palazzo Abatellis di Palermo, che aspettano rassegnati le frecce avvelenate scoccate da una Morte in sella a un cavallo feroce e scheletrico.
Così come l’asta autogestita da Damien Hirst nell’autunno 2008 precedette di pochi giorni il crollo delle borse internazionali, oggi la mostra di Cattelan sembra annunciare il fallimento del nostro Paese, imbalsamato come questi cavalli, scoiattoli e asini e prigioniero di un passato finito per sempre. La Nave non va più, direbbe Fellini, e nemmeno la Barca di Orietta Berti: siamo ad un passo dal baratro, di fronte a una vera e propria mise en abîme, un’apocalisse dello sguardo orchestrata dal Puck della società contemporanea, un po’ folletto e un po’ giullare, capace di terrorizzare con le sue verità pronunciate tra un inchino e una capriola i sovrani più potenti d’Europa.
Guai a non ascoltarli, questi joker che trasformano ogni nefandezza in una risata, alta e pungente come quella di Gino De Dominicis, capace di scandalizzare l’Italietta democristiana degli anni Settanta con un ragazzo down, seduto immobile su una sedia davanti al pubblico attonito della Biennale di Venezia nel 1972. Forse è stato proprio lui, insieme ai mobili appesi al soffitto di Kounellis e gli arazzi-puzzle di Boetti, ad ispirare con il suo uomo impiccato presentato alla galleria La Nuova Pesa di Roma poco prima di morire, i bambini di Cattelan appesi a un albero in una piazza di Milano, a loro volta anticipatori di questa installazione: una cascata di giocattoli per giganti che sembra uscita dal cappello di Gulliver, improvvisatosi prestigiatore per divertire i Lillipuziani. Un personaggio che deve aver ispirato Maurizio, che immagino attento lettore della fiaba di Collodi. Un po’ marionetta un po’ burattinaio (tanto da aver trasformato le sue opere in marionette), un po’ Pinocchio e un po’ Lucignolo, ha tramutato il Guggenheim nella pancia della Balena, da dove il burattino terrorizzato vedeva ogni tanto squarci di luce provenienti dalla bocca del cetaceo.
Paura e stupore, angoscia e meraviglia: come fece Giulio Romano nella stanza dei Giganti a Palazzo Te, Cattelan non ha timore di sconvolgere la consueta percezione delle sue opere per suscitare una vera e propria vertigine della vista, simile a quella che provarono nel 1997 i primi visitatori del Guggenheim Bilbao, il primo museo che suggeriva una visione caleidoscopica dell’opera, permettendo perfino di guardarla dall’alto in basso. Così come succede oggi agli occhi dei visitatori della mostra, che incontrano nel loro percorso altri occhi, chiusi o spalancati ma sempre fissi, come quelli dei cadaveri. Animali impagliati, trucchi da prestigiatore, presagi di prossimi disastri che metteranno a dura prova la nostra piccola e indifesa penisola? Maurizio non sembra curarsene più di tanto. Dopo questa mostra/monstre ha annunciato la sua uscita di scena, ma dubito che smetta di osservare con passione e ironia le sorti del mondo e della sua fragile Italietta, non più in grado di competere con un mondo troppo complesso. Ma un modo c’è sempre, e Cattelan lo sa bene, come Benigni, Fellini, Visconti, Pasolini, Calvino e tutti gli italiani che hanno fatto sognare il pianeta con visioni fatte di parole, poesie o immagini. Costruite giorno per giorno con coraggio e tenacia, urgenza e passione come All, questa Apocalisse dello sguardo capace di incantare e sorprendere: un grande gioco che assomiglia alla vita vissuta a 360 gradi da uno degli artisti più importanti del nostro tempo.
Ludovico Pratesi
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