Assediati da una comunicazione dilagante e capillare, occupati da social network che insidiano la nostra concentrazione, stretti ai fianchi da messaggi virali eletti al rango di nuovi persuasori occulti: viviamo, con consapevolezza ma senza istruzioni per l’uso, in un’epoca di information overload. A curare questa afflizione contemporanea da contenuti, di cui troppo spesso subiamo il fascino senza domandarci quali conseguenze potremmo pagare in futuro, ci pensa l’infographics. Antidoto tra i più riusciti che la disciplina del problem-solving – alias il design – sia riuscita a elaborare contro il crescente rumore della semiosfera, l’infografica è l’ultima arrivata nel fertile campo del data visualization, ma anche la prima a conquistarsi la venerazione dilagante di un pubblico trasversale, alla ricerca di un filtro all’eccesso informativo e di una sintesi in grado di guidare l’interpretazione del mondo che ci circonda. Sia che l’argomento possa riguardare una proiezione su come vivremo nel 2050, le ragioni della crisi finanziaria, l’evoluzione dei matrimoni interrazziali o i meccanismi che permettono di realizzare un film low-budget.
Allora, come spiegare l’infografica al neofita? Potremmo tentare definendola come la raccolta, l’organizzazione e la rappresentazione di dati in forma grafica. O, ancora, come un’immagine bidimensionale in grado di incorporare livelli di informazioni molteplici ed eterogenei (“escaping flatland“, secondo il teorico Edward Tufte). Spesso rappresentati, soprattutto nelle sue versioni più contestate, da quei grafici a torta che ci ricordano gli spettri delle elaborazioni in Excel. Ma caratterizzati sempre – pena il dileggio delle comunità in rete – da una veste grafica raffinata, quasi al limite della patinatura, devota al predominio della vettorialità e guidata dal motto lanciato da uno dei suoi più illustri esponenti, il giornalista e designer David McCandless, che dell’adagio “information is beautiful” ha fatto un leitmotiv, oltre che un libro, ormai condiviso dai suoi numerosi epigoni.
Ma se l’infografica si è trasformata in un oggetto di culto, tanto lo deve a tutti quei prodotti giornalistici che, sposandone la formula, ne hanno fatto un cavallo di battaglia in grado di conferire visibilità al genere e scarto innovativo alla propria identità editoriale. A cominciare dal New York Times, tra i primi quotidiani a inserire le infografiche sulle sue pagine cartacee e online. O ancora a Good, la rivista americana che, più di ogni altra, ha identificato nell’infografica la propria specificità editoriale. E a cui, qui in Italia, si aggiungono i casi de Il Sole 24Ore e Wired Italia, maturati sull’onda degli esperimenti americani ma già in grado di conquistarsi un’identità visiva specifica e sofisticata. Senza dimenticare i fenomeni underground del momento, in primis quello di tal Nicholas Felton, che illustra la sua vita con report ispirati ai bilanci aziendali.
Sbaglieremmo, però, a pensare che l’infografica sia un’invenzione tutta nuova, spiegabile con l’avanzare del digitale e con il lento ma inarrestabile predominio dell’immagine sulla parola scritta. Affinando il ricordo, dovremmo infatti tenere a mente che le più antiche cartografie risalgono addirittura al 7500 a.C., ben prima dell’avvento dei primi alfabeti. Sbaglieremmo ancora se pensassimo che le infografiche siano cosa da desktop publishing, se fu il grafico francese Charles Joseph Minard nel 1861 a elaborare la prima, “vera” infografica sul fallimento della campagna di Russia di Napoleone.
Che sia dunque nella sua capacità di sviluppare una narrativa in uno spazio compresso, favorendo la razionalizzazione e la gerarchizzazione dei dati, la vera forza dell’infografica di oggi e di ieri? Visto il legame strutturale fra le necessità di trasmettere informazioni e generare una storia, non possiamo che concordare. Ricordando, però, che l’effetto moda insito nella proliferazione odierna delle infografiche rischia di esserne il limite più strutturale. Spesso sottaciuto, perché di questo genere di rappresentazioni si preferisce evidenziare il lato schematico e neutrale rispetto a quello iperbolico e persuasivo, legato, quest’ultimo, alla pubblicazione di una bella immagine capace di spezzare la monotonia di una griglia editoriale, o alla possibilità di suscitare sentimenti empatici, ad esempio angoscia e stupore. A svantaggio, senz’altro, dell’accuratezza delle fonti che vogliamo difendere, o del rumore semantico che ci pregiamo di voler diminuire.
Giulia Zappa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #2
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