Consentiteci, e poi tacciamo per sempre, ancora due parole sul Padiglione Italia. Nel corso di questi mesi, come sapete, si sono sprecate accuse e difese nei confronti di Vittorio Sgarbi e del suo progetto. Un riassunto sarebbe d’uopo, ma ve lo risparmiamo, per porre invece una domanda: il problema di questo padiglione e, consentiteci, di tutti quelli che verranno, è davvero il curatore in carica? E come mai in questo bailamme di commenti, blog, forum, interviste, Facebook et similia, pochi si sono concentrati sulla questione del metodo?
In Australia il governo dispone dell’Australian Council for Arts, cui è affidata la gestione e l’organizzazione del Padiglione alla Biennale di Venezia. Il Council, inoltre, ha tra i suoi compiti quello di sostenere economicamente artisti e progetti d’arte nel Paese più grande del nuovissimo mondo e di promuovere oltreconfine la creatività nazionale. Lavora ovviamente di concerto con diversi attori governativi e ha all’interno del suo staff esperti del settore, mediatori, persone che hanno un curriculum acquisito in musei e organizzazioni culturali. Il Council nomina quindi un commissioner che svolge un ruolo di coordinamento, ma anche di fundraiser (supportato da un deputy commissioner e da un gruppo di lavoro con voce in capitolo). Per l’edizione ancora in corso, questi, insieme all’artista protagonista (a sua volta selezionato da un board formato da direttori di museo internazionali, docenti universitari e membri interni), ha scelto il curatore del padiglione. Insomma, una struttura complessa, flessibile e il più possibile articolata.
Un sistema poco dissimile adottano i meno lontani danesi, con il loro Danish Council for Arts, suddiviso in singoli dipartimenti per settore (musica, performing arts, visual arts ecc.). Idem con patate per la Gran Bretagna, con le ovvie differenze dettate dagli ordinamenti nazionali e dai contesti territoriali. In questo caso, l’artista viene selezionato da un comitato che cambia di anno in anno, composto da professionisti, curatori e anche da giornalisti. Per l’edizione 2011 figurano signori provenienti da Tate Liverpool, Baltic, Arnolfini e The Times, tra gli altri, presieduti dal commissario Andrea Rose, direttore del dipartimento di arti visive del Council, mentre la curatela è affidata a un’altra posizione interna, Richard Riley.
In Olanda ci pensa la Mondriaan Foundation; in Scandinavia, addirittura se la gestiscono di biennio in biennio in tre: l’Office for Contemporary Art per la Norvegia, il Frame (Finnish Fund for Art Exchange), per la Finlandia, il Moderna Museet per la Svezia, uniti nel Nordic Commitee grazie a un accordo firmato a Oslo il 23 luglio del 1965. Con una collaborazione che funziona così bene da essere ampliata, nel 2009 per il progetto The Collectors di Elmgreen & Dragset, anche alla Danimarca. In Germania è il ministro a nominare il curatore del Padiglione: “peccato” che sia coadiuvato nel suo ruolo dal Federal Foreign Office Art e da un comitato composto da esperti d’arte e direttori di museo.
Potremmo andare avanti per ore. Ma non servirebbe, perché questo elenco è più che sufficiente per fare alcune considerazioni. La prima è che il curatore, in questi frangenti, non assume un ruolo da passerella, né una sorta di curioso strapotere. È, bensì, un importantissimo tassello di un gruppo di lavoro prestigioso e qualificato. La seconda ha a che vedere con la trasparenza: i processi con i quali i curatori vengono nominati, le persone che vi partecipano, il team che costruisce il progetto sono chiarissimi, a disposizione di chiunque abbia voglia di approfondire.
E da noi? Se escludiamo l’annata 2007 (Ida Giannelli fu incaricata da un Comitato di coordinamento fra la Biennale di Venezia e la Darc), in Italia è il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali a nominare il curatore del Padiglione Italia. Non si capisce per quale motivo, quale sia il percorso che lo abbia portato, magari nell’ambito della presentazione di un libro, a indicare quel curatore piuttosto che un altro, quali siano i criteri di scelta, quali le procedure. Un comunicato di tre o quattro righe comunica la decisione e festa finita. Ci si affida, perciò, non al giudizio non di un board di tecnici di settore, ma a quello di una figura politica che per di più, in teoria, avrebbe un ruolo, compiti e investiture molto diversi.
Il risultato? È che il Padiglione Italia, senza nessuna volontà di entrare nel merito della qualità degli ultimi o di quelli che verranno, rischia di essere sempre avulso da ogni forma di coerenza e di continuità. Per dirla in poche parole, se un padiglione sarà all’avanguardia, straordinario o mostruosamente brutto, si tratterà non di una scelta, ma di un terno al lotto. Pertanto, invece di continuare ad affrontare le questioni sul piano delle contingenze, in Italia, ogni tanto, sarebbe importante cominciare a ragionare sulle questioni di metodo. Evitando di ingaggiare polemiche, discussioni e dibattiti intenti alla ricerca di un colpevole. Con il tono stanco e annoiato del classico tema di Scandalo al sole…
Santa Nastro
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