Quant’è contemporaneo il Tintoretto
Una riflessione sul gesto curatoriale che ha caratterizzato l’edizione 2011 della mostra probabilmente più attesa al mondo. Ovvero la ricontestualizzazione di tre capolavori di Tintoretto, inseriti per l’occasione in una dimensione espositiva white cube. Ultimi giorni a disposizione per visitare la Biennale dei record.
L’inclusione di tre opere di un artista attivo secoli fa come Tintoretto, in una grande mostra internazionale d’arte contemporanea, è stata la mossa a sorpresa di questa edizione 2011 della Biennale di Venezia. Un gesto curatoriale certamente non convenzionale, che diventa comprensibile e pregnante solo se analizzato da un punto di vista squisitamente critico, in quanto concernente un giudizio di attualità espresso nei confronti dei valori artistici incarnati dall’opera del grande veneziano, testimonial a sorpresa in rappresentanza di alcuni caratteri salienti della creazione artistica contemporanea.
Una prima analogia presente nel paragone posto in essere da Bice Curiger fra artisti così lontani nella storia riguarda l’avversione in Tintoretto per la fissità dell’inquadratura, così come codificata secondo prerogative riconducibili ai dettami della prospettiva albertiana, e le risultanze della cosiddetta “crisi del medium” che, negli anni ’60 del secolo scorso, a partire dalla stagione del Minimalismo, ha comportato l’abbandono dell’opera bidimensionale a parete come dimensione espressiva esclusiva, o quantomeno privilegiata, per l’arte di ricerca. Da una parte c’è quindi l’invenzione di una spazialità centrifuga e vertiginosa, “aperta”, compiuta a beneficio del suo tempo da un irregolare del Rinascimento maturo che si potrebbe definire “installativo”; dall’altra, l’avvento di pratiche tridimensionali, immersive e percorribili, verificatosi con l’affermazione, durante la seconda metà del Novecento, di un nuovo modello di carnalizzazione dello spettatore, con sullo sfondo la lezione di Marcel Duchamp e il concetto di “milieu percettivo” formulato da Maurice Merleau-Ponty.
Si tratta di due passaggi importanti nella concezione del ruolo della spazialità nell’arte, due veri e propri cambi di paradigma, di cui uno tuttora in azione, che vengono così concretamente affiancati, e che traggono dal confronto un contributo di reciproca chiarificazione (“illuminazione”) sul piano critico. Due snodi che risultano apparentabili anche da un altro punto di vista, ovvero per la loro retroattività, per la capacità cioè di rivitalizzare peculiarità del passato, ritenute in entrambi i casi superate: Tintoretto deve essere infatti considerato sia l’artista “spaziale” per antonomasia, in netto anticipo sui tempi (Caravaggio e l’attitudine scenica del Barocco sono ampiamente annunciati nella sua arte), sia l’artista notturno e febbrile che ha contribuito a scardinare lo spazio prospettico “scientifico” e astrattamente naturalista messo a punto nel Rinascimento, recuperando una sensibilità per certi versi pre-rinascimentale, gotica o comunque medievale; allo stesso modo, la svolta verificatasi ormai mezzo secolo fa in direzione del cosiddetto “campo allargato”, che ha portato le relazioni fuori dall’opera, spalancando per l’artista nuovi orizzonti operativi, ha anche favorito il riassorbimento di una dimensione ambientale e site specific che il fare arte già deteneva, ma che era stata sostanzialmente abbandonata con l’estromissione dal novero delle pratiche considerate d’avanguardia delle arti tridimensionali, reputate “teatrali” da parte di una critica di tendenza analitica e modernista, schierata (con Clement Greenberg) in difesa della cosiddetta “integrity of picture plane”.
Un secondo elemento di attualità riscontrabile nell’opera di Tintoretto consiste in quel suo attributo peculiare che è stato definito con il termine “prestezza”, ovvero nella corsività particolarmente accentuata dello stile pittorico, che nel corso della storia è costata all’artista veneziano una notevole sottovalutazione da parte della critica, almeno fino al Novecento. In molti, nel passato, a partire da Pietro Aretino, secondo il quale a Tintoretto si addice “la prestezza del fatto” e non “la pazienza del fare”, rimarcando un deficit di finitezza sul piano dell’esecuzione, hanno infatti considerato la sinteticità di Tintoretto come un disvalore, anziché secondo un concetto di Kunstwollen (ancora nel 1946 per Roberto Longhi Tintoretto è uno che “resta al canovaccio”); ai nostri occhi di spettatori che hanno conosciuto l’arte del XX secolo appare invece evidente come la concisione descrittiva sia in Tintoretto parte integrante di una poetica dell’istantaneità, in relazione alla quale indulgere pittoricamente nel particolareggiato e nel rifinito diventa semplicemente fuori luogo.
Possono essere letti in questo senso sia il fatto che i suoi capolavori consistano per lo più in rappresentazioni di eventi miracolosi, intrinsecamente fulminanti sul piano concettuale; sia l’insofferenza palesata da Tintoretto (come notato nel corso del Settecento, da Luigi Lanzi) verso un’operazione tendenzialmente virtuosistica e per così dire “lenta”, qual è la rappresentazione del panneggio. Le classiche due facce di una stessa medaglia!
L’arte di questo grande pittore antico può essere quindi avvicinata in una chiave – come diremmo oggi – “riduzionista”, considerato che con la sua frenesia egli si dimostra interessato quasi esclusivamente alla dinamica dei fatti rappresentati, piuttosto che all’arricchimento della scena dipinta; per la stessa ragione, la sua pittura non pittorialista risulta pure compatibile con i presupposti teorici “indicali” e di mera registrazione che sono propri della fotografia. Anche la scelta rivoluzionaria di dipingere su fondo scuro, e la pregnanza assegnata all’illuminazione, sono suscettibili di essere interpretati come orientamenti operativi aventi funzione essenzializzante – e dunque antidecorativista – rispetto a scene che appaiono concitate ma mai sfarzose, veementi eppure nitide, anche quando complesse e affollate. Nel secolo scorso si è molto insistito su un concetto di ostensione, di pura presenza, e quindi sull’icasticità di un’arte intenta a riferirsi alla sfera dell’essere (riscontrabile tanto nel fiat lux in forma di zip pittorico di Barnett Newman, quanto nella decontestualizzazione oggettuale inventata da Duchamp). Su questa linea, il mix di essenzialità e istantaneità presente nelle opere del grande veneziano si dimostra in sintonia con l’estetica del pensiero che caratterizza l’arte contemporanea, molto più di quella di altri maestri della luce come Caravaggio o Vermeer, i quali non avrebbero potuto dialogare a partire dalle stesse prerogative con gente come Jack Goldstein o Gianni Colombo.
Avvincente è poi la scelta di inserire in una mostra d’arte contemporanea un artista che può apparire fuori contesto, oltre che per la distanza storica, per il fatto stesso che la sua produzione – com’è ovvio! – è esplicitamente religiosa sul piano iconografico; un artista che quindi si supporrebbe incompatibile con l’estetica analitica e razionalista della contemporaneità, e che invece presenta note di attualità anche considerando questo punto di vista. Colpisce infatti, in terzo luogo, la sussistenza nell’opera di Tintoretto di una poetica che oggi definiremmo dell’elementare sublime, in virtù della quale il dato luministico, che è spesso svincolato da una funzione mimetica, mentre viene fatto coincidere con ciò che è trascendente, viene pure presentato e concettualizzato per se stesso, come elemento autonomo.
Sicché il commento più appropriato circa lo spettacolo offerto dai tre Tintoretto allestiti nel Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale sembrano essere le parole di un artista supercontemporaneo come James Turrell, il quale ha dichiarato che la luce “non ha bisogno di rivelare nient’altro, perché è essa stessa rivelazione”. Un autentico statement, quanto basta affinché la (fin troppo sbandierata) dissociazione tra l’arte contemporanea e quella del passato appaia come un argomento di cui poter discutere, piuttosto che come un tabù. Anzi, proprio in virtù del suo appeal “so contemporary”, la presenza di Tintoretto in ILLUMInazioni consente pure di riflettere su un punto mai del tutto chiarito. Sul fatto cioè che l’obiettivo di rappresentare l’irrapresentabile non è affatto alieno alla storia dell’arte contemporanea, ma anzi costituisce uno dei suoi filoni principali e più battuti, e per giunta da parte di molti dei protagonisti del suo côté più radicale – secondo una direttrice che, volendo semplificare all’osso, da Kazimir Malevic passa per Ad Reinhardt, e arriva su su fino al già citato Turrell, giustamente invitato in ILLUMInazioni.
Una ultima considerazione in conclusione. Trattandosi di un gigante del passato la cui fortuna critica è però prettamente (tardo-)novecentesca, e anzi a questo punto pure un po’ post-novecentesca, la presenza di Tintoretto in veste di portabandiera in ILLUMInazioni ha anche la salutare funzione relativizzante tipica del memento mori, perché permette di riflettere sul carattere di transitorietà di ogni valore artistico, compresi quelli che lo riguardano e che per i motivi di cui qui si è provato a dare conto sono anche caratteristici della produzione artistica del nostro tempo.
Pericle Guaglianone
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