Un punto e mezzo di PIL. Basta limitare le soprintendenze
Un punto e mezzo non è uno scherzo, nient’affatto. Certo non risolverebbe tutti i problemi del nostro Paese, ma una bella mano la darebbe. Come fare? Semplice: limitando lo strapotere - spesso arbitrario e acefalo - della soprintendenze.
Le Borse hanno fatto perdere la pazienza a tutti. Governi compresi. Nessuno ci capisce più niente. Quanto a noi, il Governo italiano è stato, diciamo così, caldeggiato a risolvere rapidamente alcuni problemi, sotto l’occhio vigile del FMI. Ministri e parlamentari si scervellano per trovare le risorse, per diminuire gli sprechi, per associare a maggiori entrate (tasse!) provvedimenti che tentino di sbloccare la crescita. Senza riuscirci.
Incredibile a dirsi, ma in questo pandemonio il mondo dell’arte e della cultura può dare il suo contributo. E non solamente evitando di chiedere (già tante volte abbiamo dimostrato che ormai la cultura non chiede più l’elemosina allo Stato, domanda soltanto di poter lavorare in maniera più agevole, senza intralci, senza burocrazia), ma questa volta proprio dando. Mettendoci qualcosa di suo, rinunziando a delle prerogative. Un punto e mezzo di Pil. E non esageriamo. Un punto e mezzo in più di Pil, ogni anno, per chissà quanti anni ancora. Una enormità. Con un provvedimento facile facile, quasi banale. Semplicemente togliendo al mondo della cultura quei “poteri” che consentono di porre veti, avere l’ultima parola su costruzioni, demolizioni, trasformazioni urbane, lavori pubblici.
Una riforma che tolga dalle mani delle soprintendenze i poteri di veto che bloccano il Paese. Parcheggi, stazioni, palazzi, alberghi, strade, ferrovie, metropolitane, case, architetture di ogni tipo. Tutto bloccato. Troppo spesso senza motivo. Troppo spesso con motivi che nulla hanno a che spartire con la tutela del bene culturale in questione. Sovente bloccato per il gusto di bloccare, per far vedere che ci si è. Qualche volta bloccato per poter avere il potere – esercitato non sempre lecitamente – di sbloccare.
Il caso tipico? Un condominio deve ripulire la facciata, il palazzo è notificato, si montano le impalcature e si comincia a pagare l’occupazione del suolo pubblico. Passano i mesi e la soprintendenza non si decide sul colore da utilizzare. Passano altri mesi, i costi aumentano sensibilmente (il degrado idem; i negozi al piano terra, sommersi tra i tubi innocenti, non lavorano più…) e la situazione si sblocca soltanto dopo aver chiamato quel dato geometra che, con un lavoro da poco ma pagato tanto, trova tutti i vialibera necessari. Non si tratta di casi verosimili, ma veri. E si tratta di casi piccoli, piccolissimi. Perché quelli grandi si chiamano linee metropolitane, nuovi ospedali, studentati, carceri fatiscenti da demolire e ricostruire per dare dignità a chi le abita. Migliaia di casi in tutto il Paese: gli imprenditori, per andare avanti, si devono trasformare in corruttori poiché – con la scusa del ritrovamento – v’è una concussione de facto, gli investimenti stranieri stanno alla larga da un Paese dove è sufficiente rinvenire un “tratturo non lastricato d’epoca imprecisata” per bloccare cantieri da 400 milioni per tre anni (parliamo sempre di casi reali), i posti di lavoro vanno a farsi benedire in nome di una cantina medievale o delle fondamenta diroccate di una villa romana, la malora prende il sopravvento e all’economia viene impedito, fisicamente, di svilupparsi e di fluire naturalmente come ha sempre fatto.
Non si tratta di abdicare sulla tutela dei beni culturali. Piuttosto di passare da una tutela di maniera, dannosa, a una tutela reale, concreta. Passare dall’“abbandoniamolo, così sarà tutelato” all’“utilizziamolo, così sarà tutelato”. Si chiama sviluppo e i “soprintendenziali” sono gli unici a pigliarsi il lusso di ignorarlo. Un punto e mezzo di Pil bloccato per la soddisfazione (e il tornaconto?) di un sistema di tutela che è diventato un sistema di potere. Col risultato che non solo gli investimenti vengono bloccati, ma che la maggior parte dei beni culturali, archeologici, architettonici e paesaggistici (contrappasso paradossale ma inevitabile) versa in condizioni penose. C’è il danno e c’è la beffa. Possibile che, tra mille problemi economici, non ci si pensi?
Massimiliano Tonelli
Editoriale pubblicato su Artribune Magazine #2
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