Dalla padella alla brace
L’annosa sfida italiana. Un passato - che già i futuristi con i loro modi, diciamo provocatori, avevano messo in luce - da tutelare e preservare. Un presente che rischia sempre più di non diventare mai futuro. Qualche considerazione e qualche proposta (anche per il ministro Ornaghi) in merito.
Le pagine culturali – già esigue – dei giornali italiani, i blog, i convegni dedicati alla cultura sono, in questi giorni, un bollettino di guerra o un invito all’irritazione. La parola “tagli” è, come ogni crisi vuole, protagonista, riconfermando il ruolo, pari quasi allo zero assoluto, che la cultura ricopre nell’agenda nazionale e un assunto che rischia di non essere mai smentito. La cultura è un lusso, non una necessità. La cultura è qualcosa che viene dopo la sanità, gli ammortizzatori sociali e la pubblica istruzione.
Si potrebbe innanzitutto obiettare che i primi due aspetti non negano la cultura, ma sarebbe pretendere troppo. Ma quanto all’ultimo, siamo veramente all’assurdo. Come si può parlare infatti di pubblica istruzione senza cultura? Volendo ragionare per esempi e iperboli – e anche con un briciolo di buon senso popolare – se i nostri figli dispongono (cosa che non è) di una scuola perfetta, ma poi nel tragitto tra l’istituto e casa non trovano un museo aperto, non possono andare a visitare una mostra (non necessariamente d’arte), e intorno a loro non esistono artisti, scrittori e scienziati (poiché temporaneamente se ne sono dovuti scappare all’estero, o gli è stato imposto di trovare un altro lavoro), a che vale tutto ciò?
Certo, le buone notizie non mancano. Paolo Baratta è stato riconfermato alla Biennale di Venezia, in un ruolo che, i risultati delle ultime edizioni parlano da loro, gli calza a pennello. E il ministro Ornaghi il 17 dicembre si è recato a Pompei a rendersi personalmente conto della situazione, indicendo una riunione tecnica con il Segretario Generale del MiBAC Antonia Pasqua Recchia, il Direttore Generale per le Antichità Luigi Malnati, la Soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro e il Presidente del Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici Andrea Carandini.
Ma si è anche sottolineato che l’investimento del nostro Paese nella cultura è andato scemando dal 2008 a oggi di più di un terzo dell’entità. Sul piano delle erogazioni liberali, come si evince dal discorso di Ornaghi agli Stati generali della Cultura del Partito Democratico (Roma, 4 dicembre), l’incremento è stato pigro, con risultati non da capogiro e comunque rallentati da una burocrazia farraginosa e punitiva. È quindi emozionante sentire finalmente un ministro dire che la cultura deve sapere produrre delle “visioni culturali” e che un sistema diventa “irreversibilmente in decadenza quando non è in grado di produrre innovazione culturale”. Benissimo quando si parla di agevolazioni fiscali per sponsor ed eventuali sostenitori di ristrutturazioni di beni culturali, meraviglioso incoraggiare i cittadini a sostenere un museo o un teatro, come una cooperazione più felice tra Stato, imprese e privati, ed è importante anche pensare al blocco del turnover nelle amministrazioni pubbliche.
La paura è però che le parole chiave siano sempre le stesse: salvaguardia, tutela, patrimonio, con uno sguardo che per l’Italia debba sempre parlare unicamente al passato. Il Sole 24 Ore, in un articolo a firma di Antonello Cherchi datato 14 dicembre 2011, riporta: “Il potenziale che l’Italia detiene nel settore non è, però posto ‘in condizione di svilupparsi’. Eppure, ha aggiunto Ornaghi, ‘non c’è ricerca e innovazione, non c’è crescita, senza tutela e valorizzazione del patrimonio’”. È vero, ma è anche vero il contrario. Non c’è tutela del patrimonio senza ricerca e innovazione: a meno che, ad esempio, non si voglia procedere con dei sistemi datati 1980, quando va bene, nello svolgimento di queste attività. Ed è anche vero che non esiste patrimonio se non è messo a confronto con il presente, non esistono cioè le visioni invocate da Lorenzo Ornaghi, se la storia non va avanti.
E se poi spostiamo l’attenzione dalle proposte ministeriali, che comunque sono di tutto rispetto, ai ragionamenti molto spesso esposti dagli opinion leader, anche qui non abbiamo un atteggiamento rivolto al futuro largamente condiviso. La cultura, da sempre snobbata, oggi, con un gesto da Houdini, diventa nell’opinione comune il “petrolio”, una possibilità di “fare soldi”, uno specchietto per turisti stranieri che comprano panini, bibite e biglietti d’ingresso. Peccato che chiunque abbia lavorato in un museo anche solo due ore sa benissimo che i biglietti costituiscono una parte veramente residua delle entrate, peccato che la mission dello Stato debba essere creare servizi e opportunità per il cittadino, non fare cassetta, peccato che alla Tate Modern, salvo le mostre temporanee, si entri gratis (e che museo!). Allora qual è il punto?
La fiducia che questo nuovo inizio italiano sia un inizio anche per il mondo della cultura in cui finalmente vengano rimessi sul piatto i temi importanti come quello della tassazione sulle opere d’arte, ad esempio, che rende l’Italia uno dei Paesi meno competitivi al mondo (bloccando il mercato e i nostri artisti); che l’obiettivo sia un dialogo effettivo tra passato e presente, con l’intento di aprire le porte a un futuro che sia non di fragile equilibrio, ma di coraggiosa crescita. È una sfida che dobbiamo prendere sul serio. Stavolta veramente. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di cadere dalla padella alla brace.
Santa Nastro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati