Il Macro macello, altro che Mattatoio
Galleristi che hanno voglia di dire la loro. Che facciamo, li censuriamo? Nooo. E allora ecco una nuova incursione di Giorgio Galotti, della CO2 Contemporary Art di Roma, nel sistema dell’arte. E dopo aver fustigato il voyeurismo fieristico, ora non le manda a dire sulla gestione del Macro Testaccio.
Non è giusto – dice Teofrasto – odiare i colpevoli, perché l’errore li spinge al delitto, e uno spirito assennato non può odiare chi sbaglia. Se per ignoranza della via un tale si aggira per i nostri campi, sarà meglio ricondurlo sulla buona strada anziché cacciarlo con la forza. Si devono correggere i colpevoli sia con l’ammonizione, sia con la forza, ora dolcemente, ora aspramente.
Seneca, Dottrina della morale
Arrivati a questo punto, credo non ci resti che passare alla forza, una forza costruttivamente critica. Soprattutto dopo aver digerito l’ultima proposta da 3,5 milioni di euro per dedicare una parte del complesso del Macro Testaccio a un Museo della Fotografia.
È passato del tempo da quando quella sede ha aperto i battenti. Era stato battezzato Macro Future, poi, dopo pochi mesi di vita, i gestori avevano ben pensato di rettificare tale denominazione in Macro Testaccio, forse perché di Future non aveva mai avuto neanche l’ombra.
Ebbene, oggi quello che accade all’interno di quella struttura dal sapore industrial-vintage è qualcosa di tipicamente italiano. È giusto parlarne in modo completo per ravvivare una discussione che sembra essere ormai data per scontata.
Il complesso del Mattatoio, nato tra il 1888 e il 1890 per mano di Gioacchino Ersoch, risulta oggi essere uno dei grandi esempi di architettura industriale recuperata in una piccolissima parte. Un complesso architettonico che ha subito da sempre l’onta di una gestione inutilmente dispendiosa: dalle superflue decorazioni, fortemente volute dalla committenza del tempo, all’eterna necessità di ampliamento – vedi le aggiunte del Frigorifero (1911) e della Pelanda dei suini (1915). Una gestione che da allora a oggi non ha mai trovato pace.
Dal 2002, infatti, il complesso – che vanta circa 105.000 metri cubici, di cui circa 43.000 coperti – è stato in parte assegnato al Museo Macro con l’obiettivo di “ampliare, rivitalizzare, stimolare e diffondere la scena artistica contemporanea“. Lo spazio che risulta essere usufruibile a Testaccio è una struttura di oltre 8.000 mq espositivi. 3.000 mq sono ricoperti dal Padiglione 9a e 9b, aperti regolarmente al pubblico durante i periodi di mostra, e dopo l’investimento fatto per la ristrutturazione della Pelanda lo spazio utilizzabile si è ampliato di altri 5.000 mq.
Ma la struttura non finisce qui. La possibilità di recupero di altri due padiglioni, ora definiti in “stato di abbandono”, potrebbe offrire al Macro la candidatura per uno dei musei più grandi al mondo. Il complesso contiene inoltre due teatri di 260 mq ognuno e alcuni studi-laboratori di circa 120 mq. Una sala regia di 65mq, una sala registrazione, un appartamento per residenze di circa 130 mq, più altri 150 metri di bagni, servizi e camerini. Tutto già pronto per l’uso.
Ma i musei, da che mondo è mondo, vanno riempiti di progetti e di opere d’arte. Ed è proprio questo il punto cruciale di questa sublime bestia architettonica. Le opere d’arte ci sono, i progetti ci sono stati e continueranno a esserci, popolando senza dubbio i capannoni in concessione al museo. Ma il modo in cui è stato gestito rende questo “territorio di confine” un caso puramente italiano, anzi forse più propriamente “romano”.
Quella che doveva essere una terra fertile da irrorare di nuova creatività è, allo stato attuale, una “linea Maginot” tra il campo operativo del Macro e i tentativi di inserimento dei finanziatori occasionali, che sulla nuova corteccia del Museo stanno penetrando lentamente. Come una giovane sequoia piantata ex novo in un bosco ricolmo di funghi, muschi e licheni pronti a ricoprirne l’intero tronco. Il Macro Testaccio oggi è esattamente questo. Una delle poche strutture museali che versa in uno stato di autogestione. Uno degli esempi più lampanti di mala gestio all’italiana.
Che poi i fondi, se li cerchiamo bene, ci sono stati, ci sono e senza ombra di dubbio continueranno a esserci. Vengono solo canalizzati in progetti espositivi di quart’ordine, affidati a “gestori” locali che dovrebbero dare un volto e un corpo al “rinascimento romano” e invece finiscono per farci andare di corpo a ogni progetto presentato.
Quello che andrebbe definitivamente evitato è l’accumulo di manifestazioni sui generis, mostre con durate dai 3 ai 30 giorni, fino ad arrivare a feste e iniziative private che finiscono solo per allontanare i potenziali visitatori. Come è avvenuto la scorsa estate, con un’operazione “espositiva” che invece di celebrare l’Unità d’Italia l’ha sfaldata nuovamente.
Immaginatevi un giorno di essere turisti a Roma, entrare al Macro Testaccio e trovarvi in mezzo a un gruppo di gente ben vestita invitata per l’occasione, immortalata di fronte a una teca enorme che racchiude oggetti di design di dubbio gusto accumulati come uno dei peggiori showroom. Immaginatevi di dover sottoporre il vostro occhio a questo scempio e di doverlo fare dopo aver pagato un biglietto di ingresso. Immaginate pure di dover assistere a questa “selezione impeccabile” di oggetti mostruosi sentendovi fieri dei vostri connazionali. Immaginate di dover vedere accanto a questi mostri, altrettanti mostri, umani, che fanno la fila per consumare un alcolico e sfruttare gli spazi esterni dell’ex mattatoio come il peggiore dei locali notturni.
Ora smettete di immaginarvelo perché questo, al Macro Testaccio, accade spesso. Un territorio senza limiti dove vengono destinati tutti i progetti più assurdi di Roma. Se si potesse stendere un curriculum vitae, il Macro Testaccio non potrebbe neanche essere annoverato tra i musei di Roma, arrivando a disconoscere almeno il 90% dei progetti presentati, rigorosamente timbrati con marchio d.o.c.g.
Eppure anche il MoMA ha due sedi con cui opera alla grande. Una per l’arte storicizzata – con una bellissima sezione del museo destinata al design – e l’altra per la sperimentazione, nel lontano Queens (un po’ il nostro Testaccio) sotto il nome P.S.1, e con una gestione di apertura del museo, di ristorazione e di bookshop, affidata alla gente che nel Queens ci vive. Un luogo che ospita cultura e che della cultura si serve per bonificare zone ibride, per istruire e dare lavoro a soggetti che conoscono bene la propria terra e farebbero di tutto pur di difenderla.
E la differenza risiede proprio nel valore di quella cultura, nel valore della propria storia, nella drastica selezione e nella necessità di tutelare un bene di propria appartenenza.
Inoltre il MoMA ha una propria collezione, che cresce nel tempo anche perché il P.S.1 la rifocilla. Chi va a New York al MoMA ci passa sempre.
La Tate, invece, con ben quattro sedi (due dentro Londra e due fuori), mantiene un livello di mostre pronte a tutelare l’arte nazionale e in grado di guardare alle nuove tendenze. L’intestazione sul web è la seguente: “TATE – British and International, modern and contemporary art“. Come a dire: “Noi sulla nostra storia puntiamo ma non tralasciamo il futuro del mondo“.
E in momenti di crisi, quando trovare fondi diventa più difficile che portare a cena Eva Kant, non sarebbe più proficuo destinare una sede del genere alla sperimentazione Made in Italy? Un gran peccato pensare che eravamo riconosciuti per un numero inclassificabile di capolavori classici, sublimi prodotti di design e attività culturale invidiabile, e che avremmo potuto scalare la vetta del contemporaneo rivolgendo qualche attenzione maggiore alle nuove generazioni, ovvero la nostra.
Eppure basterebbe far dialogare degli spazi del genere con una collezione permanente attualmente segregata negli scantinati del Macro di Via Nizza. Giusto per evitare di arrivare a Testaccio e vedere quelle inferriate arrugginite sbarrate e, alzando gli occhi al cielo, dover soffermare il proprio sguardo sulla campata centrale dello stabilimento di mattazione, dove un Genio alato, sempre più simbolo di un Potere in decadenza, atterra un bue che scalpita.
Come un settore dell’arte ormai in ginocchio di fronte alla sua stessa struttura portante, che sembra non volersi ancora liberare della sua gramigna.
Giorgio Galotti
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