Io, l’altro. César Meneghetti e la disabilità mentale
Un titolo che rimanda a Baudelaire. Un progetto di lunga durata, che ha messo a confronto l’artista italo-brasiliano e un ampio gruppo di partecipanti ai laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio di Roma. Ne abbiamo parlato con Meneghetti.
Il 14 ottobre 2011 è stato presentato presso l’ASAC – Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia, nell’ambito delle Biennale Sessions, attività educative sostenute dalla 54. Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, il progetto I\O _Io è un altro dell’artista italo-brasiliano César Meneghetti, a cura di Simonetta Lux.
La Biennale Session dal titolo Arte e Alterità in Progress esprime perfettamente la natura del lavoro di Meneghetti. Si tratta di una ricerca sul confine tra diverse realtà: contesto artistico e mondo delle persone disabili con cui l’artista ha interagito. Il progetto è iniziato nel marzo del 2010 come indagine personale dell’artista, esperimento basato sul linguaggio, sulla comunicazione, sull’espressione, sulla collaborazione.
Meneghetti, che da anni lavora con video e fotografia, ha dato vita a una serie di incontri, dividendo in nove gruppi 120 persone con disabilità mentale che frequentano i Laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio a Roma. Per oltre un anno ha condotto una ricerca insieme e su di loro, stimolandoli a interagire con lui. In questo modo, il gruppo che si autonomina Gli Amici è riuscito a esprimersi, a uscire dagli stereotipi usando un linguaggio forse più naturale delle parole.
Nei lavori prodotti da questo gruppo insieme all’artista si coglie una capacità sorprendente di immaginare, percepire, pensare, raffigurare le cose. Una logica inedita. Alcune bozze della fase preliminare del progetto I\O _Io è un altro sono già state presentate presso il MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma. Il lavoro, che continua a svilupparsi in varie fasi successive, culminerà in una mostra durante la seconda metà del 2012.
La complessità di questo progetto, innovativo e multidisciplinare, al confine fra arte, psichiatria, psicologia e sociologia, pone molte domande interessanti: abbiamo invitato Meneghetti a spiegare le sue motivazioni, la sua esperienza e le sue aspettative.
Cosa ti ha ispirato a realizzare il progetto con il gruppo di persone disabili?
Mi interessa da sempre la ricerca sui confini, sia geografici che politici, mentali, relativi al linguaggio o alla comunicazione. Fare una ricerca artistica sulla normalità e sulla verità aristotelica insieme a persone disabili mi è sembrato un campo di lavoro perfetto per me. La cosa che mi premeva di più era cercare nuovi punti di vista, forse nuove riflessioni che noi “pseudo-normali” non riusciamo più a vedere.
Raccontaci la genesi del lavoro.
Tutto ha avuto inizio nel 2009. La sfida, rappresentata inizialmente da questo lavoro, mi è arrivata da Simonetta Lux. Simonetta, insieme ad alcuni esponenti della comunità di Sant’Egidio (Alessandro Zuccari, Cristina Cannelli e Antonella Antezza), autori assieme a lei del libro Arte, da disabile a persona, dopo aver visto e apprezzato la mia mostra K_Lab – Interacting on the reality interface mi hanno chiesto di pensare a un lavoro sulle persone con disabilità mentale. Così, ignaro finora di cosa fosse la disabilità mentale, ho messo in piedi un progetto, orientato dalla curatrice e dalla comunità, dando origine a un percorso, un osservatorio, una strategia in progress che ha coinvolto 120 frequentatori dei laboratori d’arte della comunità.
Questo è stato il primo step. E poi?
A partire dal marzo 2010 ho coinvolto vari collaboratori – alcuni già avevano lavorato con me -, una sorta di troupe cinematografica allargata, con professionisti nel campo della fotografia e del video, altri artisti, alcuni esperti in disabilità, teorici e accademici di vari campi. Alla fine del 2010 il progetto Io è un altro ha vinto il Premio Brasil Arte Contemporanea della Fondazione Biennale di São Paulo. Così, insieme a Simonetta Lux e a Sant’Egidio, ho dato inizio ai nuovi lavori, creando a Trastevere una sorta di laboratorio di arte, new media e disabilità che indagava sui confini della normalità.
Che cosa hai imparato con questo progetto?
È importante che su questa frontiera della disabilità mentale si faccia una ricerca di linguaggio specifica, ma anche che si mettano in comunicazione due mondi separati. Con questo gruppo si è messo in moto un processo di vita e di arte che mi ha dato molto. Ho cercato di ripagare in forma e contenuto. Nel passato ho costruito alcuni miei lavori attraverso i luoghi e le persone a cui mi sentivo affine, i Paesi dove sono vissuto, quello d’origine e quelli di adozione, Brasile, Inghilterra, Italia. Cercavo di individuare punti in comune, fare paralleli e, a partire da questa ricerca, creare una nuova via, l’esplorazione di spazi limitrofi, urbani o immaginari, tra il Nord e il Sud del mondo. Era sempre una ricerca d’identità e memoria, volta a creare un nuovo spazio temporale-geografico al cui interno si collocavano questi miei lavori.
È quindi un percorso iniziato molto prima del 2010…
Ho cominciato all’inizio degli anni ‘90, con le mostre No limite do tempo (1994), Re-pensamento (1995), Punti di fuga (1997), con la serie Montage (1992-2005), e in alcuni film e video come Senza terra (2001), A sud del sud (2001), Romevideo (2003), Sogni di cuoio (2004), LTDN (2007-08). Ma portavo avanti parallelamente un altro tipo di ricerca, sull’alterità, l’inusitato, il diverso, sia in lavori con gruppi di persone come i motoboys di San Paolo, Motoboy (2002-04), o la ricerca in Africa con gruppi di agricoltori, K_Lab – Interacting on the reality interface (2007-09) o la ricerca di situazioni quotidiane nell’Estremo Oriente, This_Orient (2010-11). Cominciavo così il confronto con “l’altro sconosciuto” all’interno del lavoro e della mia necessità d’indagine sull’essere umano. Per me è vitale. Io è un altro è il confine ultimo.
Fino a che punto I\O _Io è un altro è arte? Dove sta il confine fra il tuo lavoro e quello dei partecipanti? Chi è l’autore?
Come artista professionista, sono io il garante di tutto il processo. Attraverso la mia ricerca sto creando su e con loro un linguaggio che poi metterò in mostra. Il punto non è se loro sono o no degli artisti, ma tutti noi, tutte le persone coinvolte nel processo I\O hanno subito un cambiamento attraverso l’arte. Remixando Joseph Beuys, posso dire che “l’arte siamo noi, in questo piccolo e allo stesso tempo grande processo di rivoluzione”. Mi disturba molto invece quando, per esempio, i media travisano i fatti semplificando i concetti e dicendo “artisti disabili alla Biennale di Venezia”. Mi disturba altrettanto quando alcuni membri della comunità dell’arte assumono un atteggiamento di discriminazione nei confronto di queste persone che stanno sperimentando l’inclusione, grazie al processo artistico, attraverso nuovi mezzi, new media, strumenti contemporanei. E doppiamente mi duole questa discriminazione nei loro confronti, e nei confronti della qualità del lavoro e della complessità della ricerca fatta finora.
Ci fai un esempio di questa complessità?
Nell’impianto artistico della Videocabina abbiamo scambiato i ruoli: non esistono più registi e attori, artisti e opere, ma siamo tutti sotto la stessa luce. Il lavoro che si sta facendo è frutto di una terza via, una sintesi che anch’io ho dovuto imparare ad accettare. Questa è la trasformazione, qui risiede il nuovo, l’inusitato, l’imprevedibile, l’arte. Io è un altro non solo fa parte di questo confronto, ma è un viaggio di non ritorno, perché questa volta non si tratta soltanto dell’altro, ma di un pensiero altro, di una logica altra. Mi sono proposto allora, correndo tutti i rischi, di ricercare in un mondo parallelo, dove le persone con disabilità mentale sono già immerse, in un luogo dove solitamente non ci si aspetta di trovare nulla, nemmeno il pensiero. E sono convinto, dopo questi due anni, che alla fine di questa esperienza si produrranno nuove visioni e nuove logiche per comprendere la contemporaneità.
Quale sarà lo sbocco espositivo del progetto?
Tutto sarà detto nel lavoro che vedrete l’anno prossimo, spero al Macro.
In questo lavoro c’è qualcosa di simile con la tua produzione artistica precedente?
Ogni mio lavoro, sia artistico che cinematografico/documentaristico realizzato insieme a Elisabetta Pandimiglio, è caratterizzato fin dall’inizio da una forte attrazione per le tematiche sociali, unite a una costante e ininterrotta ricerca sul piano formale espressivo. È sempre un’indagine esterna verso l’altro e verso altri mondi. La narrazione è pura espressione e deriva solo dall’eccesso di questo “realismo”, senza perdere di vista la ricerca della forma. Agire o interagire con la realtà diventa così il punto centrale della ricerca estetica. Credo che Io è un altro non somigli a niente di quello che ho fatto prima, neanche ai film. È una vera sfida personale e professionale, che nei metodi produttivi assomiglia forse un po’ a una produzione cinematografica, con un mix di un workshop, alterità, ma allo stesso tempo introspezione.
Qualche aggancio ci sarà pure, al di là della poetica di base…
Se penso agli impianti artistici usati in passato, ritrovo come base le videocabine realizzate precedentemente, solo che prima la conversazione era volta alla consapevolezza del momento presente, della vita e della condizione umana, cercando di staccarle dai cliché e dalle opinioni standardizzate. Qui si perde questo valore, perché siamo nel campo della parola, del pensiero logico, che non sempre è possibile. Il mio occhio è soltanto un testimone, un complice, non giudico. Io ascolto quello che lui ha da dire, come scrive Baudelaire, io lo guardo io l’ascolto, io è un altro.
Progetti futuri?
I miei progetti sono lunghi, difficili, costosi, e non li considero mai finiti nel giorno del vernissage. Io è un altro dovrebbe continuare sotto altre forme, in modo da aprire nuove strade per l’arte e la disabilità, che dovrebbero poter convivere con la società, senza che se ne amputi una sua parte. Ma il mio compito, in teoria, finisce con la mostra nel 2012. Ho in cantiere altri lavori, che considero a metà strada tra il relazionale, new media, concettuale e sociale, ma inizierò solo dopo la fine di I\O. Nel frattempo, ho vinto un altro Premio Funarte di Arte Contemporanea di occupazione di spazi in Brasile e sto preparando due mostre. Hanno come tema il flusso, il dislocamento.
Lýdia Pribišová
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