Sulla scena dell’arte contemporanea, l’Italia degli anni ’50 ricorda il Milan di Van Basten: concerto mai replicato di forza e ragione, lucidità e potenza.
Siamo agli sgoccioli della Storia dell’Arte, siamo però ugualmente distanti da quel barocco tipico delle ere decadenti, l’ultimo ruggito prima di un’altra eclisse. L’Italia del dopoguerra coccola il suo magnifico tridente: Fontana, Manzoni, Burri. Non è solo questo certamente, ma di quel cumulo di idee nate sulle macerie del secondo dopoguerra, Fontana-Burri-Manzoni costituiscono di certo le vette. Non è necessario rammentare il valore dell’artista tifernate, non mi sembra ci sia nulla da aggiungere, per ogni indagine critica mi rimetto ai sommi testi di Calvesi, Brandi, Argan, Crispolti, Sweeney.
Il trentennale della nascita della fondazione suggerisce qualche considerazione antica; dal rapporto fra l’artista e la sua terra al ruolo di Palazzo Albizzini.
Prodigi dell’arte. Burri carica deliberatamente il centro umbro di un nuovo peso specifico, alterandone la forza d’attrazione gravitazionale; fin dagli anni ’50, Città di Castello sarà testimone del passaggio inedito dei mostri sacri del contemporaneo, da Jasper Johns a Robert Rauschenberg ai teorici dell’opera dell’artista, massimi rappresentanti dell’intellighenzia più progressista di quegli anni.
Nell’asse Roma/Milano si fa curiosamente spazio la timida Città di Castello, piccola realtà manifatturiera, ennesima testimonianza delle preziose energie prodotte dalle mille identità locali e regionali di un arcipelago tutto italiano.
La volontà dell’artista di imporre la propria città come centro unico di fruizione della sua opera vive nelle intenzioni oltre la morte di Burri e giunge fino ai nostri giorni nelle forme di quella perfetta macchina museale che si sostanzia tra gli archi di Palazzo Albizzini e le enormi campate degli Ex Seccatoi del Tabacco.
Note storiche. Corre l’anno 1981 quando Cesare Brandi inaugura all’interno del palazzo quattrocentesco il percorso espositivo che tocca in venti sale su due piani le 130 opere prodotte da Burri dal ‘48. Nove anni più tardi, il sogno dell’artista trova finale compimento con l’apertura ufficiale degli Ex Seccatoi del Tabacco tempestati di 128 lavori prodotti dal 1970 e poi integrati negli anni a seguire con opere fino al 1993.
In quarant’anni di attività Burri concorre, assieme ai migliori esiti della cultura occidentale, alla totale sovversione di tutti canoni dell’estetica, dei precetti di autorialità, degli ordini di altezza e bassezza, nobiltà e povertà dell’opera d’arte. Burri non si muove con l’energia bambina dell’arte americana, ma con la saggia coscienza di chi raccoglie un testimone, di chi, oltre il mito della modernità, scorge un’inedita continuità tra classicità e contemporaneità. Nel giro di pochi anni, l’eco dei collage, delle combustioni, dei cellotex e delle crettature costituiranno il mainstream di molte sfumature di Pop Art e Nouveau Réalisme.
Johns, Rauschenberg, Klein, Rotella oltre all’imprinting di tanta Arte Povera, Pascali, Bonalumi e Castellani (guardando alla serie dei Gobbi) fino a Spagnulo possono costituire una parte minima di quell’eredità che Alberto Burri ha seminato tra Europa e Stati Uniti. Un patrimonio scandagliato solo in superficie, lo spunto forse per l’anima di una grande mostra che dia nuovo lustro all’artista, garantendogli la stima e il riconoscimento internazionale che la storia e la sua patria gli devono.
Prendiamo per buona la provocazione di Sgarbi del “tutto è contemporaneo”, la coscienza visiva dell’essere italiani corre sulle pareti affrescate di Giotto e Cavallini, passa dalla Santa Cecilia di Raffaello e visita il Bacco di Caravaggio, si specchia nei grandi teleri del Tiepolo attraverso le colonne del Palladio fino alle piazze di de Chirico.
Che il trentennale della Fondazione, nel 150esimo anniversario dell’Unità, si ponga un traguardo ambizioso: coinvolgere pienamente Burri nell’orgoglioso patrimonio di un’italianità vivente attraverso la presenza assidua negli ingranaggi scientifici e decisionali. Molti, troppi sono infatti gli italiani ancora da convertire.
Questo è il ruolo della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, questo dovrebbe essere, secondo i più critici. La protezione, la cura non prescindono dalla trasmissione del patrimonio dell’artista; grandi sono i meriti iniziali, ancor più grandi sono le responsabilità dell’organo che se ne fa carico. Dopo la sbornia celantiana e il revival transavanguardista, vogliamo sperare in una volontà programmatica capace di scavalcare ogni giurisdizione politica.
Luca Labanca
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati