Affrontare New York oggi: 2. L’osservazione
Seconda puntata del tour del curatore Alessandro Facente nella Grande Mela. Con un giro a Chelsea, fra una mostra ad alto tasso di curatorialità e una spiccatamente commerciale, ma con che lavori! E poi MoMA e giovani artisti. Con una lezione, almeno, per l’Italia.
Passare del tempo a New York significa assistere nella gran parte dei casi a una costante erogazione di proposte di forte impatto e caratura internazionale. L’elemento che si nota in assoluto è una continuità diffusa che, nel caso di elementi di bassa qualità, è probabile che sia data in pasto ad articoli di critica disinibita. Due elementi che favoriscono da una parte stabilità e dell’altra informazione lucida e analitica, che combinati insieme ti permettono di capire meglio l’andamento del sistema generale.
Quindi, che si tratti di gallerie private, musei, spazi non profit o collettivi, l’offerta ti allena in maniera decisiva a sviluppare crescita visiva rimanendo semplicemente a guardare.
Il confronto con le opere, i concetti e il modo in cui vengono combinati insieme è frutto di un ragionamento puntuale in cui l’obiettivo finale spesso giunge a modelli funzionanti.
Le finalità e gli obiettivi, le cosiddette “mission”, la fanno da padroni e ogni mostra, buona o pessima, impressiona per la chiarezza con cui viene costruita, presentata e percepita dall’utenza che ne beneficia.
Sia che si tratti di mostre dal taglio finemente curatoriale o che parliamo di fredda finalità commerciale, la verità dei fatti è che qui si vedono mostre museali anche quando a presentarle sono le gallerie private. Chelsea è un po’ il centro nevralgico di tale opulenza, una certezza, a volte istrionica, che averla sott’occhio non fa mai male se parliamo di formazione.
Faccio quindi un giro lì e street dopo street trovo due begli esempi di mostre che fanno al caso nostro.
Da Andrea Rosen Gallery, Ydessa Hendeles è molto chiara a spiegarci nel suo testo il ragionamento curatoriale che sviluppa intorno a un meraviglioso gruppo di polaroid di Walker Evans che dialogano con una grande installazione al centro della sala: una gabbia/cattedrale per uccelli. La compostezza delle case (stile americano) rappresentate negli scatti, la superbia dello spazio e la grande installazione che spinge il punto di vista vorticosamente verso l’alto saturano il senso di vuoto di un contesto generale che non eccede in coralità.
David Zwirner ci va invece pesante, non vuole sviolinate, nessun curatore tra i piedi e ti piazza due caterpillar della pittura internazionale: Neo Rauch e Michaël Borremans. Non ci sono particolari dettagli da spiegare, se non dei pezzi davvero intensi. Tutto si svolge in una quadreria allestita a dovere, una scuola di pittura come si deve e una vera e propria lezione di museologia dalla più pachidermica delle intenzioni di mercato. Ed è su Neo Rauch che mi incastro, perché nei musei c’è stato e come: “Metropolitan Museum of Art, New York 2007; Musée d’art contemporain de Montréal; Kunstmuseum Wolfsburg, Germany (both 2006); Centro de Arte Contemporáneo Málaga, Spain (2005); Albertina, Vienna (2004); and the Bonnefantenmuseum, Maastricht, The Netherlands (2002). Major museum collections which hold works by the artist include the Gemeentemuseum, The Hague; Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, Berlin; Kunstmuseum Wolfsburg, Germany; Los Angeles County Museum of Art; Metropolitan Museum of Art, New York; Museum der Bildenden Künste Leipzig; Museum Ludwig, Cologne; The Museum of Modern Art, New York; Pinakothek der Moderne, Munich; Solomon R. Guggenheim Museum, New York; Stedelijk Museum, Amsterdam; among others”.
Se è di orientamento che stiamo parlando e l’osservazione è lo strumento che abbiamo, il mio obiettivo in queste due tappe è trasmettere che la formazione non è un qualcosa a cui arriviamo per suggerimento dall’alto, per esempio i musei, ma una capacità che autonomamente abbiamo di trovare gli insegnamenti che ci servono in ciò che vediamo, purché la struttura a cui ci riferiamo ci aiuti a capire, progettando e perseguendo costantemente i suoi obiettivi in maniera didattica e tendenzialmente formativa. Questo è ciò che possiamo e dobbiamo pretendere dal nostro sistema.
Se si prova a uscire dalle gallerie private e si entra al MoMA troviamo in una botta sola una retrospettiva di Diego Rivera con un lavoro su New York, Frozen Assets, da capogiro e la possibilità di navigarci in una sezione del sito interattiva; una, cito testualmente, “comprehensive solo exhibition” di Harun Farocki, Images of War (at a Distance) che consiste, continuo citando, in una “recent large-scale acquisition” del museo; e una retrospettiva di Willem de Kooning che male non fa.
Il problema sono le finanze che non abbiamo per sostenere artisti di caratura internazionale?
Prendiamo come esempio il Whitney Museum, che si struttura dichiaratamente sull’arte americana, lavoriamo seriamente spingendo e sostenendo gli italiani, basiamoci sull’eccellenza ragionata degli approfondimenti scientifici e il rigore curatoriale che sviluppa a ogni mostra incassi astronomici.
Real/Surreal è un esempio concretissimo. È una raccolta di lavori storici della collezione tra gli anni ’20, ‘30 e ’40 con Grant Wood, George Tooker, Charles Burchfield, Mabel Dwight, Andreas Feininger, Peter Blume, Edward Hopper, Philip Evergood, Louis Lozowick e molti altri. Il tocco del curatore, Carter Foster, svela come un archivio di immagini possa spezzare quell’esile linea che a stento divide reale e surreale, costruendo un percorso logico in cui realtà e surreale diventano le due forme di narrazione e lettura della vita urbana, sociale e post guerra degli americani. Una delle mostre più belle e formative viste negli ultimi viaggi nella Mela.
Ma non è finita perché, rimanendo in tema di didattica, i tre video di Lichtenstein, esposti in una sala tutta per loro a cura di Chrissie Iles, sono il frutto di un ragionamento prettamente scientifico che il museo fa per mostrare qualcosa che del maestro si conosceva a stento, perché esposto l’ultima volta nel 1971 al Los Angeles County Museum. Questo è un chiaro esempio di come la curatela contemporanea sia di estremo supporto per materiale prettamente storico, lavorando, valorizzando e ridisegnando la collezione su ragionamenti attuali a beneficio di un’utenza altrettanto attuale.
Abbiamo assistito più di una volta nei nostri musei a scelte non prettamente curatoriali e sono disposto a condividere se allearsi con le risorse locali serva a mantenere in vita una programmazione con poche economie; sarei addirittura umanamente felice se tale formula aiutasse un giovane artista a esporre in un’istituzione pubblica, ma professionalmente preoccupato se la scelta di farlo esporre non rientrasse nello specifico piano di scommessa del museo. Mi preoccupa perché da una parte lancerebbe nel vuoto l’artista senza costruirgli attorno il giusto contesto che lo porta al successo internazionale e dall’altra abbasserebbe le qualità della struttura stessa compromettendo l’informazione, circa l’offerta contemporanea, che trasmettiamo all’utenza comune. Quella dei neolaureati, degli studenti dell’accademia e del visitatore occasionale, ad esempio.
Si vuole puntare sui giovani perché costano meno o perché le gallerie di riferimento sono disposte a coprire le spese?
Allora puntiamo, studiamo, approfondiamo, scoviamo i giovani, visitiamo i loro studi, ma analizziamo il loro lavoro su base scientifica, ed edifichiamo una rete di collaborazioni a catena che andrà a coinvolgere le competenze locali indipendenti che a loro volta faranno da connessione con il sottobosco locale, finalizzando il tutto al lancio di artisti con un lavoro potente. E sarebbe un bene perché, alla peggio, ci farà assomigliare un po’ al PS1 che presenta, ad esempio, il catalogo di una mostra con la quale Mika Rottenberg ha chiuso il 2010 esponendo Squeeze, un lavoro video pazzesco da Mary Boone (in collaborazione con Nicole Klagsbrun Gallery), e che permette di uploadare i portfolio degli artisti nella sezione “studio visit”.
Alessandro Facente
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