Anni Ottanta. Rifacciamo i conti?
Sono stati gli anni forse più incompresi della nostra storia recente, non solo dell’arte. Eppure molto ci resta di quel decennio tanto vituperato. Ne abbiamo parlato con Edoardo Di Mauro, fresco di un progetto espositivo che ci racconta “un’altra storia”.
Cosa sono stati gli anni ‘80?
Gli anni ‘80 rappresentano la volontà di una generazione di riscoprire la forza della propria dimensione individuale, dopo il collettivismo talvolta forzato degli anni ‘70. Dal 1984, anno in cui compare sulla scena il Nuovo Futurismo, l’arte giovane, pur continuando a praticare la pittura, allargava il suo interesse a un più ampio eclettismo formale, vogliosa di rinnovare, pur rispettosa della lezione dell’avanguardia novecentesca, ambiti quali l’installazione, la fotografia, il video. L’atteggiamento era consapevole ma anche ludico e disincantato, calato all’interno di una dimensione postmoderna in cui l’orizzonte del futuro cominciava a farsi incerto.
Come ci hanno traghettato al decennio successivo?
Gli anni ‘80 sono il fondamentale punto di avvio di una narrazione che si estende al decennio successivo e fino ai giorni nostri, in cui si evidenziano grandi tratti di continuità, come ho voluto sottolineare nelle tre mostre di questo autunno Un’altra storia. Arte italiana dagli anni Ottanta agli anni Zero, che si sono poste nella scia di una serie di eventi analoghi da me curati nel corso degli anni, come Va’ Pensiero. Arte Italiana 1984/1996 (alla GAM di Torino nel 1997), e Una Babele Postmoderna (nel 2002 a Parma).
Ma perché è necessario raccontare, come dice il titolo del tuo progetto, “un’altra storia”?
È necessario per fornire una visione di quanto è accaduto diversa da quella che ci è stata imposta. Il tutto dimostra come si possano assemblare rassegne importanti senza attingere al serbatoio dei soliti noti. Il mio sforzo, con questa e altre iniziative, è poi in qualche modo anche didattico: cerco di far capire alla generazione più giovane, quella dei trentenni, che l’arte italiana non parte dagli anni ‘90, come mi pare di intuire leggendo nei commenti dei siti di arte o nei social network.
Su molti degli artisti di quegli anni è però calato il silenzio. Nel saggio in catalogo parli di un vero e proprio gap della critica, che ha compromesso il lavoro degli artisti che erano giovani negli anni ‘80…
Mi fa arrabbiare che certe scelte siano state imposte da una parte del sistema assai potente ma minoritaria, su cui ha pesato l’incapacità di fare fronte comune. La maggioranza dell’arte italiana è quella che io cerco di rappresentare, e prova ne è il grande consenso suscitato da questa proposta, non solo mediatico. Alla fine degli anni ‘80, ad onta di un panorama della giovane arte vivace e di qualità, le due grandi correnti (l’Arte Povera, al tempo in piena rivalutazione, e la Transavanguardia, in temporaneo calo di quotazione) si allearono per sbarrare la strada alle situazioni nuove, insieme all’editoria e a buona parte del collezionismo.
Non è eccessiva questa ricostruzione?
Le voci indipendenti della giovane critica che non si adeguarono al diktat vennero emarginate, e io fui uno dei principali bersagli. La situazione degenerò nel decennio successivo, con l’imposizione di un’arte omaggiante il dettato dell’international style e del politicamente corretto, capace di proporre uno stile magari patinato e gradevole, ma privo di contenuti, passione e riflessione interiore. Per tutti gli altri scattò una sorta di censura, che negli Anni Zero è stata arginata dal web e dalle riviste online, come Exibart prima e Artribune poi.
Ma Un’altra storia non rischia di ricostruire le vicende di coloro che la storia dell’arte ha deciso di collocare ormai come seconde linee?
Questo è un problema che non mi riguarda e non mi ha mai riguardato. Se molti avessero fatto come me, invece di vendersi per un piatto di lenticchie costituito da una esangue visibilità, le cose sarebbero state molto diverse. Ho scelto di esercitare questa professione per costruire progetti, non per limitarmi al ruolo di quelli che Bonito Oliva chiama i “filippini dell’arte”. La mia è una rassegna in cui sono presenti molti artisti di solido curriculum, come Gianantonio Abate, Ernesto Jannini, Pierluigi Pusole e Plumcake, che nel 1990 avevano partecipato ad Aperto, alla Biennale di Venezia, curata da Renato Barilli. Fu l’ultima occasione in cui l’arte giovane italiana venne, in quella manifestazione, adeguatamente rappresentata. Negli Anni Zero è iniziato fortunatamente un processo di rivalutazione di quelle esperienze. L’arte è un giudice severo ma flemmatico. È necessario proseguire la battaglia, con la consapevolezza che questo, prima o poi, sarà premiato.
Daniele Capra
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