Arte e giornalismo
Come può il giornalismo riuscire a comunicare e al contempo educare il lettore all’interpretazione dei fenomeni culturali moderni? Utilizzando linguaggi semplici e diretti - è la prima risposta che mi viene alla mente -, quei linguaggi che la maggior parte delle testate che si occupano d’arte oggi utilizzano con molta difficoltà.
La seconda risposta a questa domanda riguarda invece il confronto che si nutre di idee e relazioni intessute per disciplinare il mercato dell’arte contemporanea. Un mercato che, nato, cresciuto e sviluppato in modo molte volte spontaneo e quasi mai sistemico, è stato per anni scandito dalla forza dei singoli e dei loro interessi, e mai da una politica organica che ne rilevasse l’importanza centrale, vuoi per il territorio, vuoi per la società.
In questo momento di grave crisi per l’economia nazionale, stupisce in particolar modo l’incapacità della politica di dare impulsi rigeneratori a settori che hanno rappresentato, almeno negli anni passati, il motore del nostro Paese. Se è vero che da ogni difficoltà può scaturire un’opportunità, la cultura si trova allora, per la prima volta dal dopoguerra, di fronte alla possibilità di non essere trattata come una Cenerentola, bensì come macchina motrice per la crescita. L’arte contemporanea potrebbe in questo contesto rappresentare uno snodo importante per ammortizzare il cambiamento e soprattutto per incentivarlo. Da dove partire, quindi, non potendo in questo momento fare affidamento su politiche culturali incisive, a causa sia delle ridotte risorse economiche che di un rallentamento dell’azione politica?
Dal giornalismo. E così, chiudendo il cerchio, la mia domanda iniziale è diventata la risposta finale.
Ripartire da un’informazione che sappia cogliere i nessi tra produzione culturale e attività economica, che sappia essere dura con il superfluo e abbia il coraggio di sospingere la politica verso una riflessione intelligente, in netto contrasto con la violenza di alcune proteste.
Raccontare come l’arte contemporanea si insinua in un quartiere, in una città, in un Paese, stimolando la trasformazione, rinnovando i processi collettivi, può rappresentare un ammortizzatore sociale superiore rispetto a molti eventi di altra natura. E la trasformazione dell’arte si realizza nel momento in cui si spazzano via i grandi musei, i grandi circuiti, e si ritorna al territorio, nelle strade, nei palazzi, negli ascensori. Non pensandole come semplici contaminazioni – già viste – ma come modalità di crescita del tessuto urbanistico.
Sarebbe un passaggio epocale, per l’arte e per chi la produce; un passaggio dalla cultura d’élite a quella di massa. I primi che ne gioverebbero sarebbero gli artisti, ma anche gli art advisor, i galleristi e così via. Una scelta forte che non premierebbe sicuramente le scelte dei singoli, che verrebbero invece scardinante.
E se la politica oggi non arriva a comprendere le enormi potenzialità offerte dall’arte e dalla cultura, è perché non c’è mai stato un vero movimento dal basso in grado di penetrare il territorio, e si è rimasti troppo nei luoghi intramontabili e ingessati dell’esposizione della cultura classica, rifugio sicuro per la produzione di valore.
Anche se poi i conti non tornano mai, visto che questi luoghi classici deputati alla rappresentazione dell’arte sono proprio quelli che versano in perenne indebitamento, stretti da un mercato soffocante, quasi un imbuto, che premia pochi. Reinterpretare il connubio fra arte e territorio ci permetterebbe di individuare nuove connessione tra chi produce la cultura e chi l’acquista, e soprattutto di mettere in evidenza il suo valore sociale, elemento da cui non si dovrebbe mai prescindere.
Stefano Monti
Docente di Management delle organizzazioni culturali presso lo IULM di Milano
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #3
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