Collezionare videoarte (Part I)
Qual è la forma d’arte più aggiornata della nostra epoca? Ma naturalmente la videoarte. Parola di Manuel De Santaren, il collezionista che non ha paura di Youtube e della riproducibilità. Co–Chair del Photography Committee del Guggenheim di New York, tra gli “overseers” del Museum of Fine Arts di Boston e nel board of director della Ella Cisneros Fontanals di Miami. Lo abbiamo intervistato in due puntate, in attesa di vedere parte della sua collezione a Bologna a Villa delle Rose per la mostra “The Eye of the Collector”, che aprirà al pubblico il 28 gennaio, nell’ambito di Arte Fiera Art First, con la curatela di Julia Draganovic.
All’inizio del tuo percorso come collezionista, il tuo interesse era focalizzato maggiormente sulla fotografia. Come è avvenuto questo passaggio alla videoarte?
La fotografia è stata il mio primo amore. Il primo contatto con il video è avvenuto, invece, attraverso gli still da film. In particolare sono stato attratto dal Cremaster Cycle di Matthew Barney. Non avevo ancora visto il film, solo le immagini, ma mi sono detto “di che si tratta? Come un video può diventare un medium per l’arte?”. Ho deciso quindi di approfondire, di esplorare questo mezzo. In realtà, poi, ho sempre amato il cinema, cercando di capire anche che cosa avveniva in Italia, in Francia, con la sua new wave, con un’attenzione particolare per Luis Buñuel. Ho sempre, infatti, amato molto i film con un legame forte con il linguaggio dell’arte, ma quando ho visto Cremaster è stata quasi come una rivelazione. Ho quindi cominciato ad andare per musei e gallerie alla ricerca di video d’arte.
Quindi viene il primo acquisto…
Il primo pezzo che ho comprato è stato Telephones di Christian Marclay. E voi tutti sapete come sta andando la sua carriera adesso, i risultati che ha avuto con The Clock alla Biennale di Venezia. Ho cominciato ad acquisire video lentamente, continuando a comprare fotografia. Gli anni sono passati e oggi posso dire che il 95 % dei miei acquisti è composto da new media art, video e immagini in movimento, con una fortissima enfasi sulla performance. Mi appassionano la documentazione di performance e tutto ciò che intrattiene un dialogo umano ha un ascendente fortissimo su di me.
E come la mettiamo con il tema della riproducibilità, che spesso tanto preoccupa i collezionisti? È mai stato un limite per te?
No, non direi. E trovo che non lo sia in generale. Prendi, per esempio, Dan Flavin. Quando pensi che chiunque può comprare un tubo fluorescente, appenderlo al muro e dire “ok, questo è di Flavin”, ti rendi conto che il confine è molto sottile. La parte fondamentale del suo lavoro è, invece, il documento che egli ha sviluppato, il progetto su cui l’artista indica il tipo di neon, l’angolatura, la metratura e così via. Allo stesso modo, quando compri un video, c’è un documento che viene dalla galleria e dall’artista che dice che io ho acquistato una certa edizione, un certo pezzo, e che io sono il proprietario. Pertanto per me la riproduzione va benissimo.
Se l’artista vuole mostrare il suo lavoro su Youtube o su altri mezzi, io non ho nessun problema in proposito, perché gli dà la possibilità di fare passaparola. Questa è una forma d’arte vitale che molte persone stanno abbracciando. E The Clock per me è un esempio perfetto, se pensi alle lunghissime file di persone che si alternavano alla Biennale per vedere il video di Marclay. Al Museum of Fine Arts di Boston ne abbiamo una copia ed è lo stesso.
Trovi delle differenze sostanziali tra i video che vengono realizzati in Europa e negli Stati Uniti? E che mi dici dei sistemi emergenti?
Penso che sostanzialmente gli artisti europei siano maggiormente interessati a un discorso di tipo politico, rispetto ai nordamericani. In Europa, guarda per esempio Keren Cytter, c’è un approccio intellettuale nella riflessione su temi di carattere sociale. Onestamente, invece, non sono ferratissimo su ciò che gli artisti asiatici stanno producendo in tal senso. Adoro però Cao Fei, è un’artista che trovo davvero brillante. Il suo lavoro è di carattere politico, quando parla ad esempio della situazione cinese, ma non è arrabbiato, bensì è intellettuale, intelligente, emozionante. E penso che abbia un pensiero molto più forte ed eversivo di una manifestazione di piazza. Un altro artista che apprezzo molto, che ha un lavoro di carattere politico molto forte è Sigalit Landau.
Perché ci sono a tuo parere così pochi collezionisti di videoarte?
Perché sono spaventati dalla tecnologia.
Quale deve essere il ruolo di voi ‘pionieri’ in tal senso?
Se gli altri collezionisti capiscono che l’impegno di chi come me sostiene quest’arte è molto serio, probabilmente ci saranno sempre più persone attive nella promozione della videoarte, con tutto ciò che ne consegue in termini di divulgazione e di benefici per le istituzioni pubbliche. Se tu sei un grande collezionista, c’è sempre una connessione con i musei. Sei nei board, nei comitati, nei comitati di acquisizione, e quindi abbiamo una grande influenza in ciò che un museo compra o dovrebbe comprare, e naturalmente diamo anche le nostre opere. Perciò il ruolo di un collezionista privato è davvero fondamentale.
Sfrega la lampada ed esprimi tre desideri…
I primi lavori performativi di Marina Abramovic, una grande installazione di Bill Viola mi renderebbe molto felice, un video di Markus Schinwald, che credo proprio sarà uno dei miei prossimi acquisti.
Invece l’ultima opera che hai comprato?
Un video dell’artista tedesco Niklas Goldbach, The nature of things.
Santa Nastro
Bologna // fino al 5 febbraio 2012
The eye of the collector. Video works from the Collection Manuel de Santarén
a cura di Julia Draganovic
VILLA DELLE ROSE
Via Saragozza 228
www.artefiera.bolognafiere.it/eventi/arte-fiera-off/
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