La questione della mediazione culturale
Le case d’asta sono in bilico. Oggi potentissime e domani, a causa dei superpoteri di internet, chissà. Le mega-gallery spendono troppo. Per quanto ancora riusciranno a farlo? Chi fa primo mercato e dunque investe sulla ricerca, trova sulla propria strada famelici agenti che pretendono di rappresentare gli artisti più ricercati. Cosa resta, se non costruirsi un’autorevolezza che deriva dalla propria capacità di analisi?
Un futuro senza fiere, senza gallerie e senza aste? Secondo Thierry Ehrmann, a.d. di Artprice.com, lo sviluppo dei social network minaccia le fiere d’arte commerciali. Il modello esploso negli anni ’90 delle art fair dedicate alla vendita delle opere d’arte sarebbe destinato a cedere il passo a nuovi eventi progettati per favorire sinergie e relazioni strategiche tra i soggetti di un mercato sempre più articolato e complesso. Il focus commerciale si sposterebbe totalmente sul web, dove la fase di sperimentazione delle aste elettroniche è in fase avanzata e si associa a servizi diversi, offerti dalle principali case d’asta, ma anche dalle nuove piattaforme digitali. eBay, Artnet, Live Auctioneers, Artfact e presto lo stesso ArtPrice si contenderanno fette sempre più spesse del mercato collezionistico, rendendolo via via più popolare e facilmente accessibile attraverso la rete.
Nel gruppo stanno anche esperienze controverse come Vip Art Fair e Art.sy; le hanno chiamate fiere virtuali, ma probabilmente si tratta di iniziative destinate a evolversi in modelli lontani dal modello tradizionale, forse diventando piattaforme stabili, forse offrendo forme evolute di interazione con l’utente, quasi certamente sviluppando funzionalità ipertrofiche di web marketing.
Christie’s ha dichiarato di aver implementato del 25% il proprio portafoglio clienti nel momento in cui ha integrato la modalità di vendita online, ma nel progetto di trasferimento del mercato sul web la battaglia è serrata e la vittoria dei colossi delle aste non è affatto scontata.
Cicli di scambio più veloci, aumento e allargamento di domanda e offerta, trasparenza dei prezzi, il collezionismo d’arte diventa pratica liquida in costante trasformazione, che tende a sottrarsi ai tentativi di irreggimentazione cari alle case d’asta e i cui bisogni si orientano verso strumenti quanto mai flessibili e dinamici.
Quello della trasparenza, in particolare, è tema di stringente attualità; nel dibattito organizzato nel marzo scorso da The Art Newspaper e ADAA – Art Dealer Association of America, e omonima fiera, al Park Avenue Armory di New York sono tornate a galla controverse e irrisolte questioni relative alle transazioni in asta. Si va dalle cosiddette guarantees, sorta di assicurazioni sul prezzo minimo di aggiudicazione, alle strategie adottate delle gallerie per sostenere gli artisti rappresentati e orientarne le performance.
Ma quali e quante gallerie hanno il potere di esercitare questa influenza? Le gallerie sono forse tra i soggetti più esposti ai veloci mutamenti del mercato e oggi si trovano a scegliere se tentare il salto dell’internazionalizzazione o ripensare al proprio ruolo nel territorio di competenza.
Salvo non appartenere alla ristretta cerchia dei potenti dealer internazionali che possono permettersi strutture complesse o multinazionali frettolosamente ribattezzate megagallery, diventa legittimo interrogarsi con quali obiettivi si giustifichi il mantenimento di attività dispendiose con una sede fisica articolata in ufficio, spazio espositivo, magazzino, archivio e personale connesso. Quale tornaconto offrono programmazioni ridotte ormai a tre o quattro mostre l’anno, per lo più personali senza curatele e senza catalogo, e la partecipazione a qualche fiera dalla quale non è sempre facile rientrare dalle spese?
Il cosiddetto mercato primario, ambito storicamente di stretta pertinenza delle gallerie giovani e di scoperta, diventa sempre più sfuggente e impermanente, territorio di caccia di nuove professioni: personal dealer, advisor, consultant, promoter, fine art broker si rivolgono ai collezionisti ma anche, specie all’estero, direttamente agli artisti per rappresentarli o garantirsi la prima scelta. Insomma, si va a caccia di nuovi talenti e si rischia sempre più spesso di trovarsi di fronte ad agenti e intermediari; si progettano eventi che però si perdono in un calendario troppo ricco di appuntamenti offerti non solo dagli enti pubblici ma da collezioni private e aziendali, fondazioni e persino organizzazioni senza fini di lucro.
La recente edizione di ArtVerona si è caratterizzata per il coinvolgimento in un evento di mercato di attori diversi dalle gallerie, come i collezionisti, gli spazi non profit e i curatori. Una scelta quanto mai illuminata per dar conto di una filiera i cui segmenti tendono a perdere i propri confini, talvolta a sovrapporsi, e che proprio per questo è opportuno mettere a confronto. Soggetti vecchi e nuovi rivendicano la propria autorità nell’interpretare le direzioni intraprese dall’arte contemporanea, contendendosi il ruolo sul quale si gioca la partita forse più importante: quella della mediazione. Conquistare credito nella capacità di analisi dei fenomeni in atto dentro e intorno al mercato dell’arte è oggi probabilmente la cosa più desiderabile per un operatore di mercato, molto più che poter disporre di opere di artisti importanti o dei giovani più promettenti, perché la credibilità dei luoghi storicamente deputati a tale funzione (musei, pubbliche collezioni, case d’asta) è messa sempre più in discussione, ingenerando una mancanza di veri punti di riferimento.
Non è l’informazione che manca, anzi probabilmente di quella ce n’è fin troppa; ciò che manca davvero, o è difficilmente riconoscibile, è l’informazione di qualità e, aggiungeremo, non faziosa. Recentemente, sulla nota piattaforma di informazione e servizi di Artnet, Charlie Finch, parlando dell’artista cinese Xu Bing, non ha resistito alla tentazione di scagliarsi ferocemente contro il concorrente Artinfo, accusando senza mezzi termini il sito di Louise Blouin di sudditanza rispetto al mercato cinese e di servilismo nei confronti del sistema. Un richiamo opportuno, quello di Finch, in favore di un’informazione critica e indipendente, ma anche un allarme nei confronti di una generale tendenza all’abdicazione e alla confusione dei ruoli nel nuovo sistema dell’arte globale. Una confusione che certamente non risparmia i media.
Alfredo Sigolo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #3
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