Sicilia burning. La rivolta dei Forconi e dei musei
Il Movimento dei Forconi, insieme al popolo di Forza d’Urto, invade la Sicilia e la condanna a giorni di paralisi. I lavoratori (forse) autonomi scendono in piazza e bloccano l’economia di una regione. In segno di protesta. Per poi procedere verso il resto d’Italia. Stesse sfide e stessi timori per gli indignados dei musei siculi. Il fallimento della politica segna la fine di un’epoca. E l’inizio, forse, di un risveglio civile. Ma non è tutto così limpido.
Chi l’avrebbe mai detto. Proprio lei, l’isola gattopardiana, annegata in un mare di diffidenza e di torpore, avvezza a un’idea di destino senza grazia né riscatto; lei, terra d’orizzonti che non scandisce il tempo del futuro, è oggi la madre di tutte le proteste, regina degli indignati d’Italia, come avvenne vent’anni fa all’epoca del movimento studentesco della Pantera. La Sicilia del 2012 non è la Sicilia di sempre. Non quella che ci eravamo abituati a raccontare nei libri, nei film, nelle chiacchiere da bar.
La situazione è esplosa. E la sensazione, stavolta, è che non si tratti del solito fuocherello di paglia. È in ginocchio, in questi giorni, l’isola. Per via di quei Forconi inviperiti che, in barba a fedi politiche ed etichette di sorta, prendono di petto il sistema e dichiarano di voler fare la rivoluzione. Migliaia di agricoltori, pescatori, artigiani, trasportatori, a cui si sono uniti studenti, pensionati, casalinghe, bloccano gli ingressi autostradali e presidiano zone strategiche delle città. È la paralisi: treni fermi, esaurito il carburante, scaffali dei supermercati vuoti. Cinque giornate di passione, tra sit-in, scontri, qualche incidente e una comunicazione partita in sordina, esplosa sul web e in ultimo approdata a quotidiani e tv.
Del movimento si dice di tutto e di più: manovrati da Forza Nuova (di cui è simpatizzante uno dei leader, Martino Morsello), intercettati dalla mafia (Ivan Lo Bello, alias Confindustria Sicilia, non ha usato eufemismi in proposito), i rivoltosi rispediscono al mittente ogni provocazione, dichiarandosi apartitici e, soprattutto, onesti. Gente che lavora e che rivendica i suoi diritti, che è stufa del malgoverno, del caro-benzina, delle tasse scellerate, delle imprese abbandonate, dei fondi europei dispersi, delle poltrone arroganti, dei giochi tra eminenze grigie, politici conniventi e funzionari strafottenti. Miriadi di rivendicazioni si mescolano in una ventata di malcontento che dà la temperatura dell’Italia d’oggi.
Eppure, lo spauracchio è sempre uno. “Strumentalizzazione!”, gridano gli intellettuali di sinistra, quelli radical chic come quelli dell’underground, sottolineando che dietro le vagonate di lavoratori in agitazione si nascondono i capipopolo politicizzati, ex Mpa, PSI o FI che mirano ad accordi di palazzo ed estorcono privilegi a colpi di scioperi. Gli stessi che, dopo aver sostenuto Lombardo, Craxi o Cuffaro, si scagliano contro l’intera classe dirigente sicula, nei panni – comodissimi – dei paladini arrabbiati e immacolati.
Che di immacolato ci sia poco, dietro questa protesta in odor di estrema destra, è per molti versi possibile. Ma il dato significativo è un altro. Un’ondata trasversale di cittadini stanchi, pronti a rivendicare un futuro, ha investito l’isola in lungo e in largo: un primo elemento che ha già una valenza sociologica concreta.
E poi c’è la geografia ideale lungo cui si sta spalmando questa folla inferocita. Un luogo che è tanto invisibile quanto spaventoso: il vuoto della politica, la sua deriva che è divenuta sparizione, la sua ingerenza che ha prodotto odio sociale, la sua inefficienza che ha condotto alla saturazione, la sua disonestà che ha annegato ogni pudore. La misura sembra essere colma, per una società che nella politica non si riconosce più, che con la politica non parla più, che non ci crede, che non ci spera, che non ne ha considerazione. Destra, sinistra, terzi poli, unioni di centro. Una grande pochade con cui la collettività sta rompendo qualsiasi tipo di patto sociale, da quello più etico (leggi “cura della polis”) a quello più immorale (leggi “voto di scambio”). Nessuno crede in niente. L’Italia dei partiti è crollata, tra echi sordidi di un liberalismo infranto, goffaggini di una destra disossata e tristi mitologie di una sinistra mai nata, lontana ormai anni luce dall’elettorato proletario.
E allora, da questi forconi simil-destrorsi, che con un perfetto lessico no-global sbandierano contenuti da eco-progressisti (tutti contro le banche e le multinazionali, difendendo la pulizia di mari, pascoli e coscienze), che cosa ci dobbiamo aspettare? La cara, vecchia rivoluzione gramsciana pare esplodere, paradossalmente, tra le mani nerborute di contadini e camionisti del terzo millennio, quando a mancare, però, è una reale coscienza delle cose, una consapevolezza degli obiettivi e delle strategie, una maturità popolare più forte della rabbia momentanea.
Qui, in assenza di un partito che orienti e strutturi la rivolta, si intravedono, semmai, residui di politica pronti a resistere, a opporsi o a infiltrarsi, a dare mezze risposte e fare false promesse, a ribadire una fittizia presenza che ben camuffi la vergognosa assenza. Con tutti i rischi del caso, che ogni crisi vera comporta. Incluso l’avanzare di estremismi bui.
Se poi spostiamo la scena dalle campagne ai musei, poco cambia. È vero, i Forconi sono migliaia, mentre gli indignados della cultura giusto una manciata. Ma è pur sempre qualcosa rispetto al consueto niente. Così, a Palermo, esplode prima il clamore dei Cantieri Culturali alla Zisa, con i gruppi di lavoro, i forum di discussione, la tre-giorni di eventi e un movimento che da oltre un anno ragiona intorno a una possibile riappropriazione dell’incredibile spazio-fantasma. E poi il Museo Riso, al centro di una clamorosa bagarre in cui la direzione, contraddetta dall’amministrazione regionale, annuncerebbe la chiusura del Palazzo per via del mancato arrivo degli attesi fondi europei e dell’imminente inizio di un cantiere invasivo.
In entrambi i casi, la paura d’esser strumentalizzati non ha tardato a venire. Alla Zisa, tra un’assemblea e un concerto, si aggiravano imperturbabili e silenti personaggi come il candidato sindaco Leoluca Orlando e il suo ex assessore Francesco Giambrone, la vecchia guardia della Primavera palermitana che a fine Anni Novanta consegnò alla cultura cittadina quell’immenso ex-sito industriale e che ora fa capolino a poche settimane dalle elezioni comunali.
E la faccenda di Riso, nonostante la mobilitazione di cittadini, artisti e operatori culturali, è stata ben presto scippata – dalla stampa e dal chiacchiericcio nazionale – al suo rigore ideologico (la salvaguardia del museo) per fa spazio alle solite semplificazioni manichee: dietro il caso ci sarebbe la guerra tra Miccichè e Lombardo, anche qui con la Regione a un passo dal rimpasto di giunta.
Così, a raffreddare la protesta, tornerebbe il solito spauracchio della strumentalizzazione politica. Diffidenza e cautela, in primis. Perché combattere allora? Meglio star zitti, o si rischia di fare il gioco dei potenti, lasciando che quelli-di-dietro vincano, sfruttando l’ingenuità di quegli altri in trincea. Siamo, daccapo, all’ombra del maledetto retaggio gattopardiano.
E se invece, a sorpresa, la realtà dei veri rivoltosi si rivelasse più forte di tutto il resto? Se il popolo delegittimasse la politica definitivamente, esautorandola di ogni rimanente autorevolezza o funzione, in favore di una nuova fase? Se si continuasse a pensare, a spingere, a ragionare, a proporre modelli e orizzonti differenti, rendendo questa storia del “bene comune” non più un ritornello vacuo ma una vera possibilità di riappropriazione etica? Progettare un futuro per i musei siciliani, liberarli dalle ingerenze politiche, inchiodare le amministrazioni a soluzioni eque e formule intelligenti. Ovvero: prendere posizione, affinare strategie, scegliere, agire, capire, esporsi. Combattere.
Utopia? Forse. L’immagine di una rivoluzione senza capi e senza guide, senza infiltrazioni e senza compromessi, pare fin troppo ingenua. Ma quel vuoto della politica, in cui la società precipita pian piano, occorre che sia tramutato in una chance. O il rischio, prevedibilmente, è che diventi il serbatoio da cui si nutriranno, zitti zitti, le mafie del presente e gli opachi fascismi di domani.
Helga Marsala
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