Sul precariato sono state scritte fior fior di pagine da economisti, politici, sociologi e, come si direbbe con una parola che va tanto di moda, ma che non significa niente, quant’altro. Ovviamente, e come è giusto, i precari sono rappresentati nella fattispecie dai giovani che lavorano nei call center, dai lavoratori occasionali nei negozi, nelle aziende, nelle amministrazioni pubbliche. Un vero sfacelo, che sta rendendo sempre meno competitivo il nostro Paese e che sta rinunciando completamente a creare una nuova classe di professionisti, con il risultato di avere, invece, una grande forza lavoro disposta a tutto.
Ma la situazione si aggrava in particolar modo quando questo sistema di riferimento contorto viene applicato al mondo della cultura contemporanea, che le cronache mondane ovviamente riportano solo per ciò che riguarda l’archeologia e la ricerca universitaria (scientifica, of course). Perché è più grave? Perché una delle conseguenze travolgenti del precariato è aumentare la sensazione di compromesso, il senso di ricatto, di togliere progressivamente, strato dopo strato, la pelle, come quando in estate l’abbronzatura comincia ad andare via. Di cancellare il coraggio. E le idee audaci sono l’arma fondamentale, il sostrato principale di un’arte sana, emozionante e coerente.
Sembrerebbe un sillogismo semplice, o forse una banalità, ma la base per lo sviluppo culturale è l’andare avanti. La storia contemporanea procede, invece, come già commentava Umberto Eco nell’omonimo saggio A passo di gambero, e i precari sono come mosche intrappolate in una ragnatela. Non riescono ad andare oltre, né a tornare indietro. E i primi precari del mondo della cultura sono gli artisti. Laddove i colleghi stranieri possono contare su borse di studio, sostegno governativo, possibilità di ricevere grant (si pensi solo all’attività della Mondrian Foundation, del Frame di Helsinki, delle lotterie inglesi) volti a promuovere lo scambio con altri Paesi, in Italia questa rete non esiste.
Gli artisti, naturalmente non tutti, si ritrovano dunque a sostenere quella che Tom Wolfe chiamava nel suo The painted word, “la danza boho”, a intessere cioè una rete sterminata di relazioni, a diventare manager di se stessi, a fare i presenzialisti, a spendere il tempo sui social network, ad attendere gli opening senza guardare le opere e, ove la famiglia non riesce a coprire le spese, a trovarsi un altro lavoro. E quando trovano modo di fare ricerca e di professionalizzarsi? La domanda sorge spontanea e purtroppo, quando si fanno le cose nei ritagli di tempo, i risultati si vedono.
Si potrebbe obiettare che il networking non è un problema solo italiano, ma che piuttosto ha a che vedere con la glamourizzazione dell’arte. È vero. Ma il problema non è tanto essere più o meno in grado di sostenere un passaggio temporale che rende comunque tutti più o meno soggetti alle dinamiche della comunicazione, quanto avere come unica valvola di sfogo esperienziale quello che certi amano chiamare, ripetendolo come un mantra peraltro, il “sistema”. Che di per sé non avrebbe nemmeno nulla di negativo, se non fosse l’unico mondo possibile, non affiancato da un altro “sistema” di tipo istituzionale, che si fa garanzia, ancora una volta, della qualità e del coraggio delle idee. Idee senza lacci, idee non precarie. Prima di lanciarle nel mercato, dove ovviamente i meccanismi sono altri. Non malvagi, semplicemente altri.
Si potrebbe, inoltre, obiettare che gli artisti sono stati sempre precari e che tuttavia non hanno mai lesinato a produrre opere di tutto rispetto. È vero, ma è anche vero che nella sua formula modesta, il sistema delle scuole e delle accademie, con l’artista che si trasferiva da davanti a dietro la cattedra, oggi improponibile, risultava comunque efficace e che il sistema dell’arte oggi richiede, come tutte le attività produttive e culturali, una competitività altra, internazionale, una professionalità che gli altri Paesi sono in grado di garantire, mentre noi arranchiamo sempre contando sulla buona, straordinaria – ma non obbligatoria – volontà dei privati e dei singoli individui.
Il punto è che le ragioni dei fenomeni vanno trovate nei fenomeni stessi. Non si possono liquidare i problemi attribuendo a un’intera generazione una incapacità intellettuale ed è molto più semplice andare a caccia del “colpevole”. Molto più complicato, ma altrettanto entusiasmante, è costruire qualcosa che per altri esiste già da tempo, ma che per noi è completamente nuovo, richiedendo a noi stessi e al Paese uno sforzo operativo e progettuale che potrebbe portarci, finalmente molto lontano.
Santa Nastro
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