L’orientamento necessita condizioni di stabilità sostanziali affinché si possa osservare con attenzione ciò che si reputa tendenzialmente arricchente.
Questa condizione struttura, almeno idealmente, lo scheletro di un modello che agevola l’introduzione e l’aggiornamento alla pratica professionale, poiché chiarisce metodologicamente la capacità formativa dei contenuti che ognuno introduce in un secondo momento.
All’interno di questo metodo la costanza è l’elemento che permette il rispetto dei tempi di osservazione e uno strumento necessario che è importante che le nostre strutture mantengano per organizzare una programmazione fluente e predisporre l’interlocutore alla comprensione.
Fare della propria ricerca uno strumento organizzato, significa nobilitarla a materia di apprendimento che contribuisce a costruire una comunità consapevole e spronata ad agire.
Mai come in questo momento è però doloroso parlare di costanza soprattutto a livello museale perché gli ultimi accadimenti, che minano le attività delle nostre strutture, rappresentano una ferita profonda che compromette la credibilità delle teorie contemporanee e atrofizza pericolosamente il processo di sensibilizzazione delle sue pratiche.
A questo si aggiungono, almeno negli ultimi cinque anni, le innumerevoli gallerie e spazi non profit che hanno chiuso le loro attività, alimentando un senso di instabilità che fa il punto sulla differente attitudine di una città come New York dove, a una galleria che chiude, corrispondono decine e decine di eventi alternativi che mantengono costante un incoraggiante senso di produttività.
Ma è proprio in questa differenza che puntare uno spot light su ciò che di positivo accade nello stivale può aiutare, bilanciando i fatti, a raccontare un’Italia che, nella formulazione di modelli competitivi dal taglio tendenzialmente formativo e calcificati nel tempo, sa essere metodologicamente internazionale.
La GAMEC è dal 2003 che propone a cadenza biennale il Premio Lorenzo Bonaldi per l’Arte – EnterPrize al quale si affianca un programma di residenza curatoriale per giovani under 30 di tutto il mondo, quest’anno vinto dal giovanissimo Fredi Fischli di Zurigo.
L’elemento interessante sta nel proporre un simposio aperto al pubblico dal titolo Qui Enter Atlas. Simposio Internazionale di Giovani Curatori, una formula che fu tra l’altro, parlando dell’ICI di New York nella tappa sull’orientamento, il punto di partenza del nostro ragionamento.
Il simposio si struttura in una tre giorni di incontri e dibattiti discutendo di un tema specifico che nel 2007, ad esempio, focalizzava su “l’Arte nel paesaggio dei Media” con Dara Birnbaum visiting professor.
Un’occasione ghiotta, per chi era nei paraggi, per ascoltare i contributi di Craig Buckley (curatore indipendente, New York), Binna Choi (curatore BAK, Utrecht), Sebastian Cichocki (Direttore Kronika – Contemporary Art Centre, Bytom, Polonia), Cecilia Alemani (curatore indipendente, New York), Ovul Durmusoglu (curatore indipendente, Vienna/Istanbul), Nav Haq (curatore Arnolfini, Bristol LATITUDES) – Max Andrews & Mariana Cánepa Luna (curatori indipendenti e, critici, Barcellona), Tom Morton (curatore Cubitt Gallery Londra) e Huib Haye van Der Werf (Advisor Visual Arts per il Governo olandese, Olanda).
Applicare questi talk di giovani curatori internazionali, rafforzato da professionisti di spicco, può sollecitare interessanti confronti anagrafici con un pubblico della stessa generazione e scoprire quanta differenza c’è tra il sistema giovanile straniero, ricettivo in età non sospette, e il forte divario che c’è in Italia tra il periodo di studio e il mondo professionale.
Infatti, da una conversazione avuta con Giacinto Di Pietrantonio, vengo a scoprire che i simposi erano frequentati da una bassa percentuale di pubblico giovane, un’informazione preziosa che fa luce su quella “comunità”, di cui sopra, non così “consapevole” di cosa rappresenti avere periodicamente in Italia professionisti che solo viaggiando hai la possibilità di incontrare.
Sviluppare con costanza e diffondere a macchia d’olio un modello come quello della GAMEC, significa costruire un’offerta formativa extrauniversitaria gratuita, un sistema di satelliti connettivi che ruota intorno a chi intraprende, ad esempio, studi umanistici, diventando un punto di riferimento e una costellazione di culture alternative.
Guardarlo da lontano, cioè dal punto di vista delle istituzioni politiche che (mal) gestiscono la cosa pubblica, apparirebbe come un corpo compatto che guadagna progressivamente massa nel più profondo sistema sociale, aumentando la risonanza a tal punto da giungere anche al visitatore occasionale.
Su questo ci si dovrà dare da fare per stringere contatti diretti tra istituzioni museali, università e accademie.
Se questa connessione accadesse e se gli altri musei seguissero per esempio lo stesso modello con cui la Galleria Comunale di Monfalcone sta mappando dal 2004 la videoarte in Italia, sono particolarmente certo che, monitorando gli altri medium, ne risentirebbe positivamente l’offerta formativa e la consapevolezza di cosa accade in generale.
Inoltre Videoreport Italia, convocando curatori giovani per agevolare la ricerca scientifica, fa una lezione molto pratica su cosa significhi utilizzare le professionalità indipendenti nazionali per attivare un’indagine scientifica su territorio nazionale.
Ma è sul locale che dal 2009 il MADRE, con il progetto Transit, stringe l’indagine focalizzandosi su Napoli in una formula di scambio internazionale con un’area del medio oriente di notevole interesse culturale.
La formula, mi spiegava Eugenio Viola (curatore del progetto insieme ad Adriana Rispoli, che ha ospitato di volta in volta William Wells, Pelin Uran, Maayan Sheleff e Katerina Gregos), prevedeva di creare uno scambio tra artisti, curatori e strutture tra Cairo, Istanbul, Tel Aviv e Salonicco lavorando su progetti site specific che hanno transitato, appunto, tra la project room del MADRE e, rispettivamente, la Townhouse Gallery, il PiST ///Interdisciplinary Project Space, il CCA e lo State Museum of Contemporary creando un’interessante piattaforma di lancio istituzionale ed esportazione internazionale.
Ma è sul MADRE che insisto perché le ultime vicende, insieme a quelle di Riso, offrono, rispetto al nostro ragionamento sulla costanza, una lezione pratica di cosa significhi negativamente un futuro museale a singhiozzi.
Questo ci lascia presagire la grave perdita formativa di mostre di riepilogo come quella di Fausto Melotti (a cura di Germano Celant) che può dare alle generazioni viventi una lezione di scultura con il rigore formale della sua pura astrazione e il garbo visionario di chi ha saputo contaminarla con poesia, musica, architettura e letteratura.
Una mostra che proietta il mio ragionamento sulla costanza che i musei italiani devono mantenere, nel chiarire con progetti rigidamente scientifici, la produzione di artisti storici, aiutando le nuove generazioni a comprendere l’importanza del museo e la sua capacità di trasmettere cosa è accaduto prima di loro diffondendo l’azione produttiva degli artisti e il valore che hanno nella storia e nella quotidianità.
Il MAMBO su questo passaggio sta costruendo dal 2006 l’intero impianto espositivo di criticism di cui la mostra di Marcel Broodthaers fa parte; differentemente dal MADRE che con Melotti ci consegna l’eredità nazionale, il MAMBO con L’espace de l’écriture ci consegna quella internazionale.
La mostra riassume i dodici anni dell’attività dell’artista belga in un progetto curatoriale che si concentra sulla forte relazione tra immagine, parola e oggetto della sua produzione, evidenti nell’installazione di lavori come Projection sur caisse (1968), La Salle Blanche (1975) e Ceci ne sarait una pipe (1969-71).
Ma è alla GNAM che dedico il succo di questa proiezione perché, oltre ad allinearsi al MADRE e al MAMBO con una mostra di chiarimento su Gianfranco Baruchello (a cura di Achille Bonito Oliva), fa luce sulla questione della collezione con un’operazione puramente didattica di riallestimento a opera del soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli.
L’evento, che cade tuonante come un’accetta su Roma, rifà il punto sulla museologia in un momento in cui in materia, il programma di residenze al MACRO e Doris Salcedo al MAXXI, siamo in attesa di una svolta decisiva.
Lo dedico al coraggio della GNAM di ospitare un intervento profondamente colto come quello di Alfredo Pirri, che esplode in una reinterpretazione della Sala delle Colonne in un’azione di forte integrazione spaziale.
Angela Rorro (curatrice per l’arte contemporanea) mi dedica una mattinata. Partiamo proprio da Passi e non attendo molto a farle notare come questa scelta sia un segnale forte sullo sguardo da rivolgere costantemente agli artisti di metà carriera; un’azione che allinea il museo alla pratica internazionale, già da anni consolidata, di supporto degli artisti autoctoni.
Ad ogni modo l’intervento di Pirri è un articolatissimo incastro di lastre specchianti dove ogni singolo elemento si compone di un pacchetto in specchio e in cristallo, tenuti da una pellicola di gomma che fonde ad alte temperature. La frantumazione è una rottura termica, come quella dei ghiacci, che avviene in un laboratorio di vetreria; nello specifico è causata dal passaggio di ogni singola lastra da un forno a 300° a vasche d’acqua a 10°.
Partendo da uno studio su i disegni di Cesare Bazzani (architetto e ingegnere del palazzo), l’intervento ne rinnova la scansione originaria installando sulla pavimentazione specchiante Euclide (1883) di Giacomo Ginotti, Fabiola (1868) di Girolamo Masini, Eva dopo il peccato (1881) di Antonio Allegretti ed altre sculture femminili in gesso dell’1865 circa dal fondo Balzico mai mostrate prima. I gessi, un gruppo di otto di Alfonso Balzico dedicato al “Ciclo Belliniano” (Elvira, Norma, La Sonnambula, Giulietta) e alle “4 fasi di vita di una fanciulla” (La vendicatrice, La perduta, La povera, La gaiezza), vengono scelti per la loro caratteristica “di genere” e per il legame all’operetta musicale caratteristica dell’Ottocento.
Ogni singolo esemplare, partendo da un’indagine sulla prerogativa mascolina dalla Maschera Funebre di Canova installata dentro una teca, rivolge lo sguardo verso il basso, dove il terreno è lo stagno riflettente dove avviene la metamorfosi di un io che “…par da scorza [tu] esca…” in una dannunziana fusione tra opera, visitatore e storia.
Precisa Alfredo, in una conversazione nel suo studio, che nessuna scultura è eroica, e forse è per questo che sono volutamente presentati senza basamento, ma con la dignità della loro identità che sostituisce quella fusione di astrazione, scultura e sintesi cromatica che l’artista faceva su una bandiera italiana nella tappa a Palazzo Ducale di Martina Franca.
Una sostituzione, o una mancanza, che spinge ad una riflessione, aggiungerei, sulla produzione italiana, sul supporto che dobbiamo essere in grado di sviluppare e l’attenzione, prima di tutto scientifico/concettuale, da chiarire intorno ad essa.
Quest’attitudine a chiarire si riflette nell’allestimento della sala centrale (di orientamento oltretutto) con opere di artisti che hanno suscitato polemiche come Duchamp, Burri e Fontana con l’obiettivo che non sorga ancora oggi, o domani, la domanda che dà il titolo all’operazione “Scusi, ma è arte questa?”.
A questa segue un percorso tra Otto e Novecento dove i nuovi colori delle pareti e delle boiserie riprendono quelli predominanti delle opere in sala, attivando un’operazione mossa da una sana e semplice motivazione: aiutare i visitatori a percepire visivamente meglio le opere.
“Vedere e rivedere”, diceva Adolfo Venturi, e oggi ne sarebbe orgoglioso.
Ma il discorso si fa più interessante quando si ragiona specificatamente sulla guerra in un accostamento ardito transgenerazionale di opere a partire dal 1880-83 (Michele Cammarano La battaglia di San Martino) fino al 1955 (Renato Guttuso La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio), o ancora meglio nell’intervento su Pino Pascali – come il Whitney su Roy Lichtenstein di cui parlammo nella tappa precedente sull’osservazione – riproponendo l’opera Campi Arati non più visibile al pubblico dal 1969, anno della mostra che la GNAM gli dedicò nei suoi spazi.
Un racconto deliziosamente didattico che riporta ai giorni nostri un’operazione di fusione tra la retrospettiva del ‘69 e il riallestimento che Palma Bucarelli fece nel ’73 con l’aggiunta di Campi arati, restaurata per l’occasione, che non era presente in quell’anno.
Con questa operazione di chiarimento sulla collezione, e quindi sugli artisti, la GNAM ci sta tramandando la loro più grande lezione: fare e con costanza.
Una lezione urgente sull’importanza dell’approccio diretto con l’artista, dove lo studio visit è il momento in cui vedere, constatare e discutere i passaggi di una ricerca in progress che potremo, chissà, rivedere anni dopo istituzionalizzata in un’acquisizione museale. La GNAM lo fa con un acquisto squisitamente tecnico nel 2008 di un lavoro di Ettore Spalletti del ’74 (Senza titolo, 1974) in cui il famoso monocromo è in procinto di contaminare tutto il campo pittorico, ma rimane ancora al centro, nei timidi margini di una bordatura bianca.
Una lezione di avvicinamento al lavoro che in una città come New York hai il piacere di imparare sin da subito, perché oltre le mostre del sistema totemico di Chelsea e quelle giovani del Lower East Side, alla fine dei conti le cose più intense le vedi nei musei dove c’è la storia dell’arte, e quelle più interessanti negli studi degli artisti dove (a volte) c’è il contemporaneo dell’arte.
Building come quello al 1013 di Grand street o al 1717 Troutman Street di Bushwick sono enormi alveari di studi dove gli artisti sono operativi dalle 9 di mattina e pronti a consigliarti di fare visita ad un collega.
Tutto sta a trovare il primo che vi interessa, arrivare puntuali e il senso di solidarietà fra artisti farà il resto per assicurarvi innumerevoli studio visit.
Alessandro Facente
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