Non è difficile rintracciare questo filo conduttore nella manciata dei titoli in concorso finora visti al festival di Berlino, giunto al suo quinto giorno. I fratelli Paolo e Vittorio Taviani ci hanno addirittura portato dentro Rebibbia, per aprire detenuti e pubblico al genio di Shakespeare: il loro Cesare deve morire – peraltro notevole e assai apprezzato dagli stranieri – esibisce la celebre tragedia del Bardo attraverso l’interpretazione prodigiosa dei detenuti dell’Alta Sicurezza (gente che è dentro per associazione mafiosa, terroristica, omicidio). La piéce vive sul palco ma soprattutto negli spazi interni e “circoscrittamente” esterni del carcere, dove avvengono le prove. Il testo si mescola al contesto come meglio non si potrebbe, chi recita non fatica a rivivere la sofferenza complessa generata dalla rabbia, il senso di colpa, l’antica sete di potere alimentata nel mondo dei complotti. Colore e bianco&nero, meta-testo teso, d’un solo fiato, per chiudersi, com’è tristemente prevedibile, dentro la cella. Diversamente prigionieri di un destino surreale sono i Captive del filippino Brillante Mendoza, noto al pubblico festivaliero e adorato dai cinefili. Dal fatto vero che vide nel 2001 alcuni cooperanti sequestrati da un gruppo di separatisti islamici (Abu Sayyat Group) filippini a un film ad alto tasso di violenza in pura action d’autore.
Ma è reale, quanto psicologica, anche la prigionia della piccola Gaelle nell’interessante A moi seule del francese Frédéric Videau: sequestrata ancora bimba da uno squilibrato di campagna, ne uscirà adolescente e straordinariamente adulta. Il gioco tra vittima e carnefice ricalca la classica complicità ovvero dipendenza reciproca e le vere sbarre, alla fine, si riveleranno quelle comunicative con famigli e amici di lei che non possono comprenderla. Nota a margine ma di rilievo è la scelta di un casting straordinario, specie di Agathe Bonitzer nei panni della protagonista Gaelle.
Anche la Barbara del tedesco Christian Petzold è una donna priva di libertà. A negargliela è un muro che divide un ex Paese, la Germania. Siamo alla vigilia del 1989, nella DDR di provincia una dottoressa compie ogni tentativo per migrare a Ovest: le è impedito. Ma alla fine compirà una scelta che le darà più onore della fuga che andava cercando. Dramma da camera ricco di dettagli, molto “tedesco” anche nello stile di un autore indubbiamente interessante. Più scontata è la “prigionia” di cui sono vittima i sovrani, tutti i sovrani. Come Maria Antonietta di Francia che, ritratta da Benoit Jacquot in Les adieux à la reine, si rivela rinchiusa in una maschera identitaria addirittura sessuale. Tra i tanti lavori a sfondo della Rivoluzione Francese e la sua deprecabile monarchia, ci era sfuggita la deriva lesbica: buono a scoprirsi grazie a un regista che con sapiente regia e messa in scena, riesce persino a farci percepire Stephen King alla corte di Versailles.
E rimanendo in tema di restrizioni sessuali, ça va sans dire che Metéora del greco Spiros Stathoupolous emerga in primo piano. Un monaco e una monaca vivono chiusi nei rispettivi conventi, in cima a irti coni rocciosi. Si scoprono, si amano. Il silenzio e la ritualità attorno: il tempo si è fermato, benché vivano l’epoca 2.0. Il film, opera seconda di Stathoupolous, sviluppa l’eterna diatriba utilizzando la tecnica mista: in parte live action e in parte animazione. Quest’ultima – che rievoca la bidimensionalità del mosaico bizantino e concede la visualizzazione delle metafore – si rivela più interessante della prima, peraltro mal fotografata. Il lavoro, bizzarro e discontinuo, offre comunque una sua originalità.
Di tutt’altra – e per noi occidentali misteriosa – natura è la prigionia subita dal protagonista di Aujourd’hui del franco-senegalese Alain Gomis. L’uomo, per una tradizione locale, è destinato a morire all’alba del giorno seguente quello che vediamo nel film, quasi in real time. Nessuno capisce né vuole capirne il motivo, tant’è. Ed ecco la prigionia dell’incomprensione, e soprattutto dell’incapacità di ribellione. La metafora, ovvia ma riuscita, è il retaggio della schiavitù del popolo nero, i residui virali del colonialismo occidentale.
Liberi solo sulla carta sono infine le creature che animano due tra i migliori titoli finora del concorso. L’enfant d’en haut della svizzera Ursula Meier e Jayne Mansfield’s Car di Billy Bob Thornton. Così lontani eppure così vicini. Perché l’incapacità di comunicare all’interno delle famiglie – anzi con i propri genitori/figli – è la sbarra peggiore alla libertà di essere se stessi. Nel primo condividiamo il controverso rapporto tra un bimbo prodigioso che vive facendo il ladruncolo (un personaggio che Dickens avrebbe fatto proprio) e una giovane – sua sorella – che non riesce a trovare con lui un rapporto equilibrato. Interdipendenza e un segreto che non può essere rivelato.
Nel secondo siamo di fronte a due famiglie parallele e convergenti in un personaggio: una donna appena morta di cui si sta per celebrare il funerale. Scopriamo che è stata la moglie di due uomini, un americano e un inglese. Il film, davvero notevole, ci porta come in una spirale a scoprire le ferite generazionali e individuali, e una grande indelebile piaga, quella della guerra. Schiavi del passato, prigionieri del presente. Di padre in figlio. Con un finale straordinario e diversi duetti da cineteca tra i “monster” Robert Duvall e John Hurt.
Anna Maria Pasetti
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