Di falchi, colombe e speculazioni immobiliari. Intervista con Vincenzo Latronico
Stavolta lo si può ben dire: Vincenzo Latronico è un giovane intellettuale, anche se oramai il termine sembra un insulto. È nato nel 1984 e ad oggi ha inanellato una serie piuttosto impressionante di esperienze. Tanto che è difficile citarle tutte. Bastino i due romanzi usciti per Bompiani, la collaborazione fissa con “Domus”, dove scrive d’arte contemporanea, le liaison con artisti come Manuel Scano, Matteo Rubbi e Robert Kusmirowski, il seminario sull’autofiction chez Kaleidoscope. Qui una chiacchierata a tutto campo, a partire da “La cospirazione delle colombe”.
Partiamo dall’inizio, dal paratesto del tuo secondo romanzo, uscito l’anno scorso per Bompiani. Cos’è la “cospirazione delle colombe” (spiegarlo non credo sveli più di tanto il plot, e non vale rimandare a pagina 154) e perché in copertina c’è un lavoro di Bruno Muzzolini?
La “cospirazione delle colombe” è una teoria avanzata da alcuni studiosi di teoria dei giochi e di biologia evolutiva per spiegare come mai un certo tipo di altruismo sia sopravvissuto alla spinta, tendenzialmente verso l’egoismo, della selezione naturale. Applicata alle scienze sociali, la teoria sostiene che le società di libero mercato tendano a incentivare la trasparenza e la correttezza dei propri membri. Naturalmente, in questo senso, la teoria è falsa (o le condizioni al contorno idealizzate, che è lo stesso).
Ho visto quella foto di Muzzolini sulla cartolina d’invito alla sua mostra – sarà stato il 2007 –, cominciavo appena a scrivere il romanzo, aveva un titolo diverso, ma mi ha colpito subito come molto rilevante, a riguardo. Il perché, se poi c’è, l’ho capito dopo. Ma secondo me c’è.
Scrivi d’arte contemporanea per Domus. Fammela mettere in questo modo: sei un romanziere che scrive di arte contemporanea su una rivista di architettura. Certe barriere settoriali sono effettivamente cadute oppure siamo nel regno della guzzantiana casa delle libertà?
Mah, al contrario: paradossalmente mi sento più “autorizzato” a scrivere di arte su una rivista non specialistica che altrove (che pure, ogni tanto, capita). Curiosamente (ma forse no), il discorso legato all’arte contemporanea mi è parso l’unico campo non universitario in cui posso applicare, e approfondire, alcune cose che ho imparato studiando filosofia – e credo di non essere l’unico, e in questo senso mi è parso un campo del pensiero particolarmente fecondo e duttile. Questo mi libera dal complesso dell’impostore? Ovviamente, no.
Il tuo legame con l’arte contemporanea mi pare in primo luogo “letterario”. Penso al testo per le Catastrofi di Matteo Rubbi. Ci racconti di questo rapporto con gli artisti, più che con l’arte?
Be’, in realtà è nato proprio così: nel 2005, cercando una stanza a Milano, sono finito in un appartamento in condivisione con alcuni artisti (uno dei quali, appunto, Matteo). E poi, visto che facevo il traduttore, ho cominciato a tradurre le loro cose. E poi, visto che scrivevo, mi è venuto da scrivere una cosa per un lavoro che mi aveva toccato (Catastrofi è stato proprio il primo). E poi, e poi.
Pagina 104: “Si gettò verso di loro come un beduino che nell’orizzonte smerigliato dalla canicola avvista un geyser di martini dry”. L’arte contemporanea manca d’ironia?
Non più del resto del mondo, credo, o di quell’infinitesimale parte del mondo che è il mio romanzo.
Cambiamo sponda: il tuo romanzo è attraversato da una sottotraccia indignata. È il solito sentimento generazionale o stavolta si cambia qualcosa in questo Paese?
Non lo so. È facile indignarsi a parole, a romanzi, a mostre, a testi critici, a bandierine in piazza, a giri in bicicletta, a pomeriggi col the: e ora che si fa, eh?
Pagina 191: credi veramente che andare a una mostra al Palais de Tokyo sia soprattutto utile per “fare colpo”, ma che difficilmente ci si rechi spontaneamente? Naturalmente non parlo soltanto di dinamiche di coppia, ma di dinamiche sociali più ampie e pericolose…
Se ci fai caso, è strano: l’unico contesto in cui appare l’ipotesi “andare a una mostra/a un museo”, per le (moltissime) persone che non si interessano abitualmente di arte, è durante la frenesia auto-rappresentativa dei primi appuntamenti: nei romanzi, nei film, ma anche nei test sui femminili. (“Cosa fare al primo appuntamento?”). E poi, se chiedi l’occasione perfetta per limonare a Marc-Olivier Wahler, significa che non sai cosa ti aspetta. Però la (bella!) mostra di Pipilotti Rist organizzata dalla Fondazione Trussardi, in questo senso, dava molte soddisfazioni. Non penso fosse un caso.
Parliamo di cultura: volendo guardare in maniera volutamente superficiale lo scenario italiano (e non solo), mi pare che i migliori risultati in fatto di novità ed efficacia si stiano ottenendo in letteratura piuttosto che in musica, cinema, teatro, arte, architettura. Per intenderci, non vedo equivalenti di un Giorgio Vasta in altri ambiti. Tu come la vedi?
Qui vedo proprio un effetto erba del vicino, direi. Proprio ieri parlavo con un’editrice a Roma (che per interesse personale segue molto l’arte contemporanea) che mi diceva che nell’arte in Italia c’è una vivacità di interessi, una internazionalità, una “novità” che manca nello stanzino stagnante della letteratura. Io tenderei a vederla come lei – ma forse è perché, pur avendo in qualche misura il piede in due staffe, mi sento comunque più a casa nella seconda.
Ci sono parecchi riferimenti all’arte nel tuo romanzo. Ne ho citati alcuni, altri ce ne sarebbero (un personaggio che si ferma al Museumsufer di Francoforte, un altro – o forse lo stesso – che pensa al sesso nei bagni di una galleria). E invece c’è poca architettura: perché? Certo, c’è molta urbanistica, visto che si parla fra l’altro di una speculazione a Milano… Che poi potrebbe essere l’arte di CityLife, o stiamo nella consueta dizione “ogni riferimento a fatti…”?
Volevo deliberatamente tenere fuori l’architettura come campo estetico, nel romanzo, proprio per evitare di complicare la discussione (una speculazione edilizia “bella” è migliore di una “brutta”? C’è tutto un dibattito molto interessante a riguardo, a Milano, a proposito del progetto per l’area ex Enel). Ma forse è anche perché fatico a pensare in termini di architettura – mi viene meno spontaneo. Non so. Bella domanda.
Uno dei protagonisti del tuo libro, Alfredo Cannella, è artisticamente simboleggiato da una “litografia di Dalì” (p. 196) appesa in ufficio. È una scelta casuale oppure no? Insomma, una volta un tuo collega avrebbe citato Warhol…
La scelta non è casuale, anche se forse non per tutti i lettori riassume il personaggio come lo riassume per me. Warhol è comunque una cosa più avveduta, più ti faccio l’occhiolino due volte con lo stesso occhio, più sappiamo entrambi che è bello perché è brutto. Ma Alfredo Cannella trova quello che è brutto brutto: è un gaucho, o la migliore approssimazione del gaucho che possa offrirci quell’approssimazione della pianura argentina che è l’imprenditoria veneta: e il gaucho, come scriveva Borges, aspira alla finezza, e ha conservato i libri di storia dell’arte dal liceo.
Marco Enrico Giacomelli
Vincenzo Latronico – La cospirazione delle colombe
Bompiani, Milano 2011
Pagg. 392, € 15
ISBN 9788845267123
bompiani.rcslibri.corriere.it
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