È il caso di dirlo: and the winner is…
Commento breve e a caldo sulla notte degli Oscar. Con la nostra Anna Maria Pasetti che puntava su Scorsese anziché su “The Artist”. Ma soprattutto puntava sul cinema, sull’arte del cinema. Che è stata un po’ dimenticata, al di là di quanto possa sembrare.
Alla “Nuit des Oscars” il vero artista è stato dimenticato. Theo Angelopoulos scandalosamente mancava tra i compianti di In Memoriam, quell’unico frammento di commozione vera, altrimenti detto il consueto generatore di un minimo di sobria poesia tra le paillette. È capitato, ma non doveva capitare. Perché mai come in quest’edizione l’Academy era determinata a mostrarsi incline a riconoscere il cinema come arte, o almeno “nominalmente” tale.
The Artist di Michel Hazanavicius ha vinto 5 Oscar, tra cui i tre mediaticamente più pesanti: miglior film, regia, attore protagonista. Altri due ne ha ottenuti per i costumi e la colonna sonora (fondamentale per un muto). Ne parleremo più approfonditamente domani con un articolo dedicato.
Ma l’arte, quella che i membri della più pomposa cine-accademia del mondo erano intenzionati a illuminare, era altrove. Solo in parte è stata intercettata, laddove era così potente da non potersi dissimulare in furberie. Parliamo del capolavoro iraniano Una separazione di Asghar Farhadi (miglior film in lingua straniera) e dell’altro migliore in campo, Hugo Cabret di Martin Scorsese. Al suo immaginifico omaggio al cinema e alla vita sono andati 5 Oscar, esattamente come a The Artist, è vero, ma relegati alla residualità mediatica seppur pregni di oggettività “tecnica”.
E infatti nessuno ricorderà la Notte degli Oscar 2012 come quella della parità tra Hugo Cabret e The Artist, benché il primo meritasse a buon titolo di uscirne come miglior film (e regia), avendo raccolto tutti gli ingredienti (miglior fotografia, scenografia, effetti visivi, effetti sonori, mix sonoro) per un ensemble d’eccellenza, e anche di poesia. Il grande maestro era lui, Marty Scorsese, che certamente non manca di radunare in squadra i migliori, tra cui i “nostri” Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, giunti al loro terzo Oscar.
Diciamolo, dietro alla pur brillante idea di The Artist si è insediata la ancor più brillante mente dello show biz, Harvey Weinstein, distributore e promoter del film francese negli Usa. Film che – ricordiamolo – non vinse neppure a casa sua, a Cannes. Ad eccezione dell’attore Jean Dujardin. E anche sull’Oscar al fascinoso parigino sarebbe da evidenziare il mancato riconoscimento all’arte dell’immenso Gary Oldman, ingiustamente rimasto a secco per una performance straordinaria ne La talpa. Ma tant’è. Meryl Streep, impeccabile ma circondata da valide competitor, ci lascerà tranquilli per un bel po’ in quanto a Oscar: non c’è 2 senza 3, e ora basta così.
Spiace per il mancato premio all’arte tridimensionale di Wim Wenders en danse con Pina Bausch, un Oscar al suo personalissimo Pina sarebbe stato perfetto. E certamente gli estimatori del filosofico albero di Terrence Malick (The Tree of Life) ne avranno a male: proprio il trionfatore della Palma d’oro en France raccoglie il vuoto californiano. Ironia della sorte, paradossi di un mondo liquido e in eterna sospensione. E se le Hawaii dal dolore democratico di Payne (The Descendants – Paradiso amaro) vincono la statuette come miglior sceneggiatura adattata, è la vecchia ma eternamente giovane mente di Woody Allen a sorprenderci ancora, con un Oscar allo script originale di Midnight in Paris.
Sarà casuale, ma è inutile negare l’evidente scambio avvenuto quest’anno tra vizi e virtù delle due patrie della Settima Arte: Parigi e Hollywood sono andati in reciproca vacanza. Alle volpi transalpine, però, è andata meglio.
C’est la vie. And the show must go on.
Anna Maria Pasetti
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