Il re dei freak. Fenomenologia del critico catodico
L’uomo che voleva essere Sgarbi. Il critico televisivo che ha scelto la via del trash. Reuccio dell’arte a buon mercato, Andrea Diprè lavora per riscattare il popolo dei dilettanti. Arriva dalla politica e dalla militanza cattolica. E oggi imperversa su Sky con le sue televendite infarcite di melassa. Tutti geni, i suoi artisti. Tutte eccezionali, le loro opere. E se fosse lui, invece, l’unico artista del caso?
Mollemente adagiato su un improvvisato trono a forma di divano, il critico catodico sorride sornione e introduce l’artista di turno, con quel fare rilassato tipico dell’intellettuale del pop. Divertito, scanzonato, ma sempre molto concentrato, si muove con consapevolezza e agio dentro la sua divisa d’ordinanza: giacca morbida color fango, camicia linda, cravatta fantasy e capello appena lavato con ciuffo al vento. Un’anima casual dentro un look da ragioniere spento. Lui, critico televisivo al comando di un plotone di freak, intrappolato nell’utopia perversa di uno schermo.
Ospite dell’artistica dimora, l’anchorman conduce i giochi da quel divano in ecopelle, “metafora visiva di pensiero e di bellezza”. Addirittura. Parole sue, di Andrea Diprè, uno che in mezzo alle parole ci sguazza, ci sciaborda, trastullandosi con tutta la ruffianeria di un eloquio finto-colto, ultra-retorico, infinitamente pletorico. Aggettivi come se piovesse, in una profusione di elogi e spunti pseudo-teorici con cui provare a raccontare il nulla. Qui siamo oltre il critichese, oltre la fuffa, oltre l’arzigogolare dialettico dei soliti imbonitori dell’arte: Diprè è il maestro assoluto del “pacchismo”, compulsivo commercio via etere di robe spacciate per opere d’arte, date in pasto a suon di paroloni a un pubblico di innocenti estimatori domenicali. Verbosità rococò, al servizio del brutto che avanza.
Accanto a lui, sul divanetto, s’accomoda la padrona di casa, una tizia bionda in abito nero, décolleté in primo piano, coscia chilometrica e labbra a canotto. È Azora Rais, femmina fatale della dance music italo-bulgara, puledra di razza su cui punta, convinto, il nostro talent scout. Un’artista a tutto campo: cantante, attrice, modella, persino politica, la bella “nereide moderna” ha fondato pure il PIDDU – Partito Internazionale delle Donne e dei Diritti Umani. L’eredità della pioniera Ilona c’è e si vede tutta. Perché Diprè è un critico trasversale. Uno che non si ferma alla pittura, ma che nel suo calderone mediatico ci mette un pizzico di musica, di soft-core, di performance.
Come quando dedicò una puntata del suo show su Sky a Mistress Fetishdea e all’amica-collega, perfette MILF del fetish stritolate in abiti di latex. Due artiste, prima di tutto. La cui “trasgressiva, ipnotica, aristocratica” arte performativa veniva illustrata in diretta dal critico-cronista. Tra uomini a quattro zampe, guinzagli, scotch e cera bollente, un misero cartoncino A4 veniva decorato con le tracce del rito sado-maso. Esilarante il gap tra la qualità della pièce e lo sbrodolante commento del presentatore: impossibile, a detta sua, non acquistare la preziosa opera-reliquia. Un investimento sicuro.
Ma le vie del circo di Diprè sono infinite. Lui, che anni fa amava spacciarsi per il figlio di Vittorio Sgarbi, è divenuto il vero sacerdote ecumenico del trash, l’uomo che – a fronte di consistenti cifre elargite per affittare i suoi spazi tv – accoglie tra le caritatevoli braccia il grande popolo dei disperati dell’arte. Un massiccio sdoganamento sociale di cui egli stesso si vanta, fiero. A salvarsi, per sua mano, saranno gli ultimi, i falliti, i dimenticati. Lo Sgarbi-pensiero pulsa dietro la missione Diprè, nello strenuo tentativo del discepolo di emulare modi, vizi, vis polemica – e persino pettinatura – del maestro.
Una chiara componente religiosa, del resto, connotò fin da subito il suo percorso verso il successo: cimentatosi con la politica in area centro-sinistra, diventò presto presidente del Consiglio Pastorale Provinciale di Trento, ottenendo su Tca la telerubrica Vita in diocesi. Poi, trombato dall’elettorato della Margherita e dell’Ulivo, si arruolò tra le fila della Lega e divenne responsabile della Consulta Cattolica e dei Cattolici Padani, lanciandosi in ripetute invettive contro omosessuali, islamici e comunisti. E proprio quel caro, vecchio sentimento religioso finì col nutrire il sopraggiunto amore per l’arte e per gli artisti. Fino al punto da costruirci una carriera.
Così, sul filo di questa pietas, nel grande Barnum virtuale di Andrea Diprè si trova davvero di tutto, inclusi saltimbanchi, prestigiatori, nani e ballerine. Protagonisti assoluti sono loro, i pittori del sottobosco di provincia, dilettanti tramutati in talenti, piazzati davanti alle telecamere con la malinconia della loro ostinazione, lo squallore delle loro case e l’orrore di quei dipinti incensati come capolavori. Impacciati, incerti, naif, i freak di Diprè si lasciano condurre incontro agli ambiti quindici minuti di celebrità.
C’è, per esempio, lo sfortunato Vito Carpuso di Grottaferrata, di cui il critico loda le monumentali tele intrise di profondità filosofica; oppure l’esile ragazzo triste di Pisa, Maicol Puccioni, con i suoi tic e i suoi quadrucci surrealisti “d’avanguardia”; o ancora il maestro Osvaldo Paniccia di Terracina, anziano profeta di un realismo evocativo, con la sua mimica paretica e la voce roca, rotta dall’affanno.
Intanto, mentre gli ospiti chiacchierano delle loro avventure pittoriche, lui guarda fisso in camera, con l’occhio spento che pare cercare un senso, un appiglio. Perché al di là dei tanti, troppi soldi ottenuti con la promessa di una carriera nell’artworld, dove sta la morale della storia? È ora di finirla, sostiene il professor Diprè, con le “velleità dell’arte sempre più drogata proposta dal mercato”, basta con l’ottusità degli artisti mainstream, con i nomi storicizzati, gli emergenti di tendenza, i pochi santificati dalla “casta”. E vai con la critica al sistema, tradotta nell’improbabile rivincita dei casi (dis)umani. L’unica star, intanto, resta lui, inconsapevole artista al centro di una performance farsesca.
Come mai tutto questo intrighi anche lo spettatore colto, persino l’esperto d’arte contemporanea, è difficile a dirsi. Una forza incontrastabile ci incolla a questi video disseminati per il web come strani viral. No, non è lo snobismo dell’intellettuale cinico, non è lo sguardo dello spettatore radical-chic che sfotte e si fa due risate. Qualcosa di diverso si scatena in questa esuberanza del trash. Una straordinaria dose di umanità emerge e ci contagia, forse svelando qualcosa di noi. Quello che non vorremmo vedere, che spereremmo di non essere mai, che temevamo di diventare, quello che ci accumuna ai vari Paniccia e che non possiamo ignorare: le debolezze, le frustrazioni, i complessi, le cadute e le fragilità, in una vertigine che ci tiene, sempre, sull’orlo del fallimento. Mostri, outsider, geni, disadattati, folli, nerd, diversi. È l’esercito dei freak. Tutti con un sogno da proteggere e una miseria da scongiurare. E quello schermo, d’un tratto, si tramuta in specchio, feticcio da esorcizzare col sorriso dell’ironia e della compassione. Poveri loro, poveri noi.
Helga Marsala
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