La versione di Bice
Abbiamo incontrato Bice Curiger all’Istituto Svizzero di Roma, dove ha preso il via il ciclo di dibattiti “Discorsi d’attualità”, che andrà avanti per tutto il 2012. La curatrice dell’ultima Biennale veneziana ci ha parlato della sua prossima grande mostra, ma anche della scena italiana e in generale di quello che è successo all’arte contemporanea nell’ultimo periodo. Una conversazione ricca di spunti di riflessione a proposito del ruolo del curatore.
Stai lavorando a una grande mostra, dal titolo pressoché intraducibile in italiano, su una differente accezione del concetto-categoria critica di “barocco” (Deftig Barock, da maggio alla Kunsthaus di Zurigo). Non l’opulenza avvenente ed effimera, cui il termine “barocco” è tradizionalmente associato, quanto piuttosto un’idea – per molti versi opposta – di visceralità. Come presenteresti questa tua mostra? Cosa significa esattamente il titolo che hai scelto? Quali artisti hai selezionato?
In Deftig Barock vorrei evitare di dare spazio a ciò che si può definire come “neo-barocco”. Il lavoro di un artista come Jeff Koons, ad esempio, può essere considerato come “neo-barocco” – tanto più se, come è stato fatto di recente, viene presentato in un contesto quale la Reggia di Versailles, in cui a essere evidenziati sono aspetti legati alla forma e alla superficie. In Deftig Barock vorrei tendere a qualcosa di differente, anzi di opposto. Vorrei andare in profondità, verso il nucleo stesso dell’espressione. Il titolo che ho scelto si riferisce proprio a questa attitudine. Interessante è notare come la parola Deftig sia entrata nella lingua tedesca nel Seicento, al tempo appunto del barocco, dall’olandese. Ed è curioso il fatto che in olandese oggi voglia dire il contrario di ciò che significa in tedesco. In tedesco è utilizzata per descrivere, ad esempio, pasti molto pesanti, a base di carne. Oppure viene riferita a un soggetto che si esprime con un linguaggio un po’ diretto per cose erotiche. Ma è un termine che ha un’accezione positiva, o almeno neutra. Per me si tratta sostanzialmente di una maniera per parlare dell’idea della vitalità. Di una vitalità anche perduta, proiettata, o solo desiderata. Credo che il tema nascosto della mostra sia appunto la vitalità. Quanto alle opere selezionate, per l’arte del Seicento mi concentro sui quadri, dunque sulla pittura. Per il contemporaneo ci saranno differenti media: video, fotografia, scultura. Con lavori, tra gli altri, di Ryan Trecartin, Oscar Tuazon, Paul McCarthy, Boris Mickhailov, Nathalie Djurdberg.
Torni dunque ad affiancare arte contemporanea e arte antica, come era avvenuto in ILLUMInazioni. Stavolta lo fai chiamando in causa una categoria classica della critica, il barocco appunto. Più che indagare il presente con gli occhi del passato, sembri riferirti al fatto che l’opera d’arte non è mai un documento storico come gli altri. Pensi di continuare in questa direzione anche per il futuro? Tra gli stimoli che ti muovono c’è anche la volontà di enucleare categorie estetiche e concettuali che sono proprie della storia dell’arte europeo-occidentale, allo scopo di sottoporle a sensibilità provenienti da aree non occidentali?
Mi fa piacere questa tua considerazione. Proprio in questo periodo, in cui mi sto concentrando sulla storia dell’arte occidentale, mi sono ritrovata spesso a pensare alla mia prima mostra alla Kunsthaus di Zurigo [Signs & Miracles, del 1995 – ndr], che era incentrata su un artista non occidentale, una specie di ufo, ossia il georgiano Niko Pirosmani. Oggi ci sono molti libri che raccontano al resto del mondo la storia dell’arte occidentale. La casa editrice Taschen, ad esempio, produce una massa di libri sulla storia dell’arte occidentale di proporzioni incredibili, che vende per lo più in Asia, e in tutti i posti dove si sta registrando uno sviluppo economico e culturale mind-blowing. È innegabile che adesso nel mondo ci sia una percezione della nostra storia, considerando la quale si potrà forse pervenire a qualcosa di assolutamente nuovo. Si tratta di un fenomeno molto interessante da seguire. Chissà, forse i miei gesti curatoriali costituiscono una preparazione proprio in questo senso, per aiutare a capire certe possibilità.
Hai già in mente qualcosa per il dopo Deftig Barock?
È difficile risponderti, perché in questo momento sono troppo presa da Deftig Barock, che si sta rivelando un’avventura. In particolare, sto facendo continue prove inerenti la presentazione, perché se da un lato non mi interessa esporre i vecchi maestri della storia dell’arte come avviene di solito nei musei, d’altro canto voglio evitare di mescolarli troppo con l’arte contemporanea. Si tratta di problemi tecnici, che però sono anche teorici, perché appunto riguardano la teoria dell’esposizione, e anche la storia dell’esposizione. Il mio obiettivo è di realizzare una mostra non convenzionale, ma nello stesso tempo anche rispettosa. Si è portati a pensare che i capolavori degli old masters presenti nei musei dove li ammiriamo oggi, e dove li circonda un’aura di eterna classicità, stiano lì da sempre, ma si tratta di una forzatura. Ad esempio al Metropolitan non c’è nemmeno un quadro che sia stato concepito per stare al Metropolitan! A me interessa esplorare il concetto del “montaggio”, così come lo conosce il cinema. Ne parla Jean-Luc Godard. Mi riferisco al fatto che se prendi due immagini di due universi diversi e le fai incontrare in modo ispirato, avrai non soltanto una terza cosa, ma anche un modo non lineare di capire qualcosa di esse.
Ormai si organizzano fiere e biennali un po’ ovunque nel mondo. E tuttavia, un elemento di criticità nel panorama attuale dell’arte contemporanea, riguarda la latitanza di grandi mostre collettive di approfondimento critico, focalizzate su tesi pregnanti, che offrano spunti di riflessione di ampio respiro. Con il tuo esempio sembri segnalare proprio l’urgenza e la non negoziabilità, da parte del curatore, di questa attitudine. Perché secondo te vengono realizzate così poche grandi mostre che non siano solo additive o ricognitive? Ritieni sia possibile proporre letture in grado di abbracciare aspetti complessivi della produzione artistica attuale?
Le università, le scuole, l’educazione in genere, negli ultimi tempi si sono orientate molto sul canone. Oggi vige la consuetudine per cui bisogna sempre aggiungere qualcosa alla canonizzazione. A me interessa percorrere la strada opposta, cioè provare a rompere il canone. Forse perché in termini generali credo ci sia sempre una fiamma, dietro la superficie delle cose, che bisogna attivare o riaccendere. Questa attitudine a mio parere nelle istituzioni manca un po’. Tendono ad affidarsi troppo a persone che sono dentro la routine della presentazione canonica. Negli Stati Uniti soprattutto, viene attuato un didattismo a mio parere esagerato. La sensazione è che si sia un po’ perso il gusto per l’esperimento, per il poetico. Si tende a spiegare tutto in modo esaustivo.
Poi, mi pare di registrare un certo allontanamento, da parte degli addetti ai lavori, dal contesto operativo degli artisti. Un peccato, perché la tendenza a frequentare gli artisti, e a diventare loro partner intellettuali, permette di ricevere continuamente impulsi che ti aiutano a pensare l’arte, e la storia dell’arte, in modo differenziato, non canonico appunto. Quanto alla possibilità di leggere il presente in modo più generale, io credo che ci sia sempre gente, là fuori, che capisce qualcosa prima di tutti gli altri. Persone che magari sono anche dentro un gruppo, o un contesto, in cui le cose si chiariscono. L’importante è che gli artisti abbiano la possibilità di esprimersi. Guardando indietro, a volte si è pensato “adesso non c’è più niente”; poi dopo un po’ si è realizzato che non era affatto così, e si è capito – ma a posteriori – che invece in quel determinato periodo “c’era questo”. Bisogna evitare che ciò avvenga; è necessaria molta informazione, così come è importante girare, ascoltare, vedere, capire. Spesso dopo aver visto certe opere, quando poi si torna a casa ci si chiede stupefatti: “Ma cosa sta facendo questo artista? Perché ciò che fa mi dà così sui nervi?”… Ecco, in casi del genere ritengo che interrogarsi con questo spirito, in modo autocritico, costituisca un buon approccio per capire se si è al cospetto di una voce importante per il futuro.
La crisi economica comincia a mordere. C’è secondo te il rischio concreto che i governi dei paesi occidentali adottino politiche culturali regressive, tagliando risorse destinate all’arte contemporanea e riducendo la sua presenza negli spazi istituzionali?
Assolutamente sì. La crisi si sta già riverberando nelle politiche culturali dei governi. È ciò che sta avvenendo anche da noi in Svizzera, dove è in atto un notevole impoverimento del dibattito culturale, per ragioni economiche e a causa della tecnocrazia mediale. Si continuano a tagliare i fondi necessari per sostenere l’arte. Non solo, ma nei giornali ci sono molti meno giornalisti culturali di quanti ce ne fossero vent’anni fa, nonostante siano aumentati gli eventi artistici da seguire. Un paradosso, quest’ultimo, triste e anche pericoloso. Così non si fa più cultura, ma un surrogato di cultura.
Hai avuto recentemente l’opportunità di lavorare nel contesto italiano, sebbene in occasione di un appuntamento transnazionale quale è la Biennale di Venezia. Che idea ti sei fatta della situazione dell’arte contemporanea in Italia e delle sue dinamiche? Quali i pregi? E i limiti?
Vedi, in questo momento siamo qui [all’Istituto Svizzero di Roma – in occasione di un faccia a faccia con il direttore del Macro Bartolomeo Pietromarchi, ndr] perché Christoph mi ha invitata a un incontro di approfondimento intellettuale che si svolgerà in pubblico, e che si riferisce a un dibattito in corso nei media Italiani da agosto, sulla “fine del Postmoderno” [Christoph Riedweg è dal 2005 direttore dell’Istituto, ndr]. Il confronto su tematiche culturali è dunque qualcosa che in Italia è ancora possibile, e che riflette una vitalità che nei giornali – che io ho letto un po’ – comunque si percepisce. A Christoph l’ho detto e lo ribadisco qui: da noi in Svizzera da tempo non ci sono più dibattiti un po’ filosofici e culturali nei giornali e nelle riviste. Per l’Italia trovo che questo sia già vitale, un fatto veramente positivo. Quanto alla situazione dell’arte contemporanea, premetto che mi sono sempre interessata a ciò che accade qui da voi. E devo ammettere che, certo, una volta c’era un movimento veramente collettivo, con l’Arte Povera e anche dopo, mentre adesso la situazione è differente, perché il panorama si è fatto più frammentato. Tuttavia, trovo che in Italia ci siano tuttora una notevole energia e un certo fermento. Ci sono fondazioni, gruppi, ci sono realtà come Artribune, Mousse e Kaleidoscope; ci sono artisti specifici che hanno una loro forza. Il paese è ricco di potenzialità, e questo si avverte chiaramente. Detto ciò, si dovrebbe secondo me intervenire di più e con politiche mirate, nel settore dell’educazione all’arte, come fa tra l’altro la Biennale di Venezia a beneficio dei ragazzi delle scuole del Veneto. Su questo fronte ci sarebbero possibilità incredibili, in un Paese come il vostro.
Pericle Guaglianone
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