L’Italia che vince. A Berlino, poi
Fratelli d’Italia. L’impresa di Paolo e Vittorio Taviani alle 62esima Berlinale ha il dolce sapore dell’Italia migliore, di quella che oggi si stenta a ritrovare E non a caso, forse, da due decenni un titolo tricolore non conquistava un Orso d’oro (ma anche per ritrovare Palme e Leoni d’oro dobbiamo retrocedere al millennio scorso…).
Grazie a Cesare non deve morire dei fratelli Taviani si respira il gusto di quell’Italia che riesce a universalizzarsi senza ostentarsi né perdere la propria identità. Un progetto nato e riuscito come l’impresa ardua dagli equilibri funambolici, miracolo di forme e contenuti tra lo sperimentale contestuale (il carcere in e off stage) e il classico testuale (il Giulio Cesare di Shakespeare) estremi. L’Orso d’Oro ai fratelli Taviani è indubbiamente meritato: emergono sostanza, densità e profondo senso del vero, il tutto chiuso in una logica più poetica che programmatica, facendo così volare il film oltre le sue imperfezioni: e questo è un bene, laddove perfezione non è sinonimo di emozione.
Ma oltre ai nostri Taviani, il Festival di Berlino appena concluso ha confermato una vocazione a premiare la ricerca del tratto politico di ogni realtà messa in scena: e con questo non ci riferiamo alla consueta tradizione di “cinema politico” della massima rassegna tedesca – peraltro sempre ben organizzata da Dieter Kosslick – bensì evidenziare che nel palmares sono rientrati non solo film smaccatamente di denuncia (come l’ungherese Csaz a szél di Bence Fliegauf, Gran premio della giuria, o il congolese-canadese Rebelle di Kim Nguyen, Premio miglior attrice) ma soprattutto lavori “dal senso” politico nell’accezione originaria del termine.
Cesare non deve morire, ad esempio, è uno di questi. Almeno quanto lo è il sorprendente Tabù (Premio Fipresci e Alfred Baure Preis per il cinema innovativo) del portoghese Miguel Gomes, in cui in una doppia porzione (quasi due film in uno) si condensano il presente residuale e il passato colonialista (in Africa) di un Portogallo dai risvolti sociologici tuttora misteriosi. Il discorso vale anche per l’ottimo danese En Kongelig Affaere di Nikolaj Arcel (Premio miglior sceneggiatura e miglior attore), melò in costume e dramma sul potere di fine Settecento, dove vediamo nascere, soccombere e risorgere tra gli intrighi monarchici l’era dei Lumi. E ancora per L’enfant d’en haut di Ursula Meier (Menzione speciale della giuria), dove i rapporti complessi e contraddittori tra un bimbo e la sorella maggiore simboleggiano la decadenza politica dell’Occidente più “patinato”: di fatto, i due protagonisti sono “i poveri della Svizzera”, sulla carta un ossimoro che nella realtà si fa invece tangibile.
Politico di ferite ancora fresche, è Barbara del tedesco Christian Petzold (Miglior regia), ove nella DDR di provincia si consuma il dramma di una dottoressa (l’attrice-musa Nina Hoss) animata dalla volontà di fuga da se stessa e da un Paese-prigione. E infine, politico di cicatrici passate ma indelebili è White Deer Plain, il mastodontico kolossal (188’) del cinese Wang Quan’an che, mostrando la faida tra due famiglie nella Cina contadina tra le due guerre mondiali, elabora (forse inconsciamente) le perenni idiosincrasie della Repubblica Popolare.
Peccato non siano stati riconosciuti dalla giuria i valori dell’indonesiano Postcards from the Zoo di Edwin (cine-poesia allo stato puro mentre si descrive usi e costumi di una nazione poco nota), dell’esistenzialista A moi seule di Frédéric Videau (con una splendida Agathe Bonitzer), e soprattutto del passionale Jayne Mansfield’s Car di Billy Bob Thornton, panoramica trans-generazionale scattata nel ’69 della provincia americana, dove padri e figli si tramandano i traumi dei rispettivi post-war, con il risultato che alla fine nulla cambia e il ciclo della vita difficilmente si evolve da quel genere di dolore.
Anna Maria Pasetti
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