Parla Davide Rampello. La Triennale di Milano dopo
Dal 7 febbraio, il nuovo presidente della Triennale di Milano è Claudio De Albertis. Presidente di Assimpredil Ance, erede di una famiglia di costruttori, De Albertis (62 anni alla fine del mese) si è imposto sull’architetto Carlotta De Bevilacqua e sull’ex rettore del Politecnico Guido Ballio. Ma in tutto questo avvicendamento, come si è ridefinito Davide Rampello? A lui l’abbiamo chiesto. Mentre è appena giunta la sua nomina a direttore artistico del Padiglione Zero, quello che costituirà l’accesso al sito espositivo dell'Expo.
Può delineare una breve storia, alcuni passaggi del suo mandato?
Dapprima è stato valorizzato il palazzo, per potergli restituire l’energia e la luminosità di cui Muzio lo aveva dotato fin dall’inizio. Seguendo la propria tradizione, la Triennale ha dovuto mettere in mostra non solo la storia del design, ma anche le sue nuove definizioni, attraverso contaminazioni di arti e discipline senza alcuna preclusione tra cultura alta e bassa. La Triennale nel 2003 ha dovuto diventare un luogo per la nascita di nuove situazioni sociali e di momenti aperti alle arti. Ecco dunque il primo trittico di mostre dedicate alla Pop Art: Warhol, Basquiat e Haring, e successivamente Lichtenstein. Attraverso questi eventi si è voluto dare un segno forte di presenza e di visibilità, per poi proseguire con Lynch, tra arte e cinema, senza dimenticare la creatività di Colombo, La città infinita, La vita nuda, o la mostra a scopo benefico: Acqua, pane e lavagne del 2007. Abbiamo creato un museo che seguisse un andamento narrativo e non classificatorio: nessun incasellamento per generi, periodi temporali o personaggi.
Com’è cambiata la sua mission, il suo compito nell’arco di questi nove anni?
Oggi posso affermare che mentre io facevo la Triennale, la Triennale plasmava me. È stato uno scambio di doni reciproco. La Triennale è un terreno creato per essere disfatto e rifatto, esattamente come quando si coltiva e si rivanga la terra. La Triennale, comunque sia, non è mai solamente. La Triennale cambia sempre, ogni volta, trasformandosi. Diventando un luogo in cui dibattere esaustivamente temi e problemi della contemporaneità.
A fine incarico, quali sono i bilanci?
Senza voler essere retorico: la Triennale è un bilancio positivo in sé. Non tutti i musei d’Italia possono permettersi un ristorante degno della guida Michelin, oppure una libreria che offre pubblicazioni rare, o mostre che propongono offerte colte. Io credo che questo sia l’attivo di un luogo che ha voluto rappresentare, per i giovani, un mondo di eroi del lavoro, della conoscenza e della collaborazione.
C’è qualcosa che si rimprovera?
Il giorno in cui ho salutato tutti i miei collaboratori, il mio ultimo giorno in Triennale, mi sono reso conto che non sono riuscito a dialogare abbastanza con loro. Proprio mentre stringevo ad ognuno di loro la mano ho capito di non averli abbastanza valorizzati e tutelati nel loro percorso. Loro rappresentino un asset fondamentale per la Triennale. Per il resto non rimpiango nulla: oggi sento di aver completato, non ultimato il mio ruolo di Presidente.
In merito a CityLife e al museo con imprimatur della Triennale: a che punto è rimasto il progetto?
Tutto era iniziato quattro anni fa, con la Triennale che avrebbe dovuto diventare curatore speciale, partner della gestione del museo di Libeskind. L’edificio era carico di valori simbolici. All’ingresso del museo, avevamo pensato di realizzare, addirittura, le terme per esaltare il concetto di purificazione, di catarsi da effettuare prima di accedere ai luoghi dell’arte. All’ultimo piano, invece, volevamo sviluppare un frutteto, che avrebbe chiuso il panorama su Milano per spostarlo verso il cielo, verso l’alto e la trascendenza. Poi per stupidaggini e limiti della generosità, il progetto si è arenato rimanendo qualcosa di cui non parlare più. Attualmente non conosco come stiano procedendo i piani costruttivi.
Quali sono stati i problemi della Triennale di Milano all’estero?
Il progetto della Triennale in Corea era partito bene, con forte riscontro da parte del pubblico. Poi è cambiato il sindaco della città di Incheon e il nuovo assetto politico ha portato diversi assestamenti, tra i quali la nostra presenza istituzionale. Per quanto riguarda New York, la sede era pronta al 75%. Avrei voluto davvero che l’Italia avesse un proprio luogo di rappresentanza in una delle città più importanti del mondo. Poi per incomprensioni e veleni di salotto, anche questo progetto è sfumato.
Qual è stato l’evento che l’ha coinvolta di più?
Sicuramente la Triennale Bovisa. Senza alcun finanziamento, sono andato personalmente da Pasquarelli (Euromilano) proprietario dei terreni, e ho cominciato a pianificare come portare la Triennale, anche se in maniera provvisoria, vicino al Politecnico, in periferia. In quattro anni di attività ci sono stati 67mila visitatori, solo il giorno dell’inaugurazione si sono stimate 12mila persone.
Quale strategia è necessaria per dialogare con istituzioni internazionali?
Prima di tutto comunicare. Non solo a livello personale, dunque alzare il telefono e chiamare, ma anche promuoversi a tutto campo. La cultura al dettaglio della Triennale si è espressa anche attraverso un’identità grafico-visiva forte, subito riconoscibile, una linea di comunicazione che è riuscita a coinvolgere, fin dagli esordi, i migliori creativi di Milano.
Quali progetti pronti per essere realizzati ha lasciato al tuo successore?
Una grande mostra realizzata assieme ai Pink Floyd, che inaugurerà in primavera, e poi una nuova edizione del Museo del Design, con un percorso composto di sola grafica.
Il suo futuro, invece, che cosa comprenderà?
Attualmente sono nel comitato scientifico del Forum Universale delle Culture; sono direttore del Carnevale di Venezia; ho in carico la direzione artistica di Florence a Firenze; e, in ultimo, sono onorato di essere alla Presidenza della Fondazione Paolo Grassi di Milano.
Ginevra Bria
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