Primavera Berlinale
Non c’entra certo il clima, che anzi riserva al festival che inizia oggi un sospeso ambiente polare. Ma è la vocazione sempre “impegnata” della rassegna tedesca a darsi il tema del mondo in rivolta, con occhi puntati anche sulla Primavera araba. Fra pegni necessariamente pagati alle liturgie dello star system e grandi maestri che mettono in fibrillazione la critica, non mancano a Berlino le escursioni cinematografiche nelle arti visive.
(Show)business is (show)business. La Berlinale sarà anche la più radicale, la più impegnata, la più “politica” fra le grandi rassegne cinematografiche europee, almeno nella triade che forma con Venezia e Cannes. Ma senza il pedaggio da pagare ai rituali della comunicazione, senza il ritorno mediatico assicurato dai biasimati red carpet, senza i nomi che mobilitano tv e settimanali popolari, e conseguenti investitori pubblicitari, non si sostiene un evento che in dieci giorni mette in programma 400 titoli, e non si fanno fuori 200mila biglietti in prevendita, come accade per questa edizione 2012.
Ed ecco allora la magic couple Angelina Jolie-Brad Pitt lanciata alla conquista (riuscita) delle prime pagine, con lei – all’esordio alla regia con In the land of blood and honey – alla testa di una pattuglia hollywoodiana formata dall’eterna Meryl Streep – Orso d’oro alla carriera -, da Antonio Banderas, Keanu Reeves, Javier Bardem, Salma Hayek, Uma Thurman, Robert Pattinson, Christian Bale, Christina Ricci, Michael Fassbender.
Sorrisi e gossip garantiti, fino al 19 febbraio. Ma il cuore del festival è altrove, ed emerge dall’unica fonte sincera e univoca: il programma. Forgiato attorno al tema del mondo in rivolta, con particolare attenzione – sottolineata dal direttore Dieter Kosslick – all’attualità della Primavera araba, alle dinamiche sociali, alle guerriglie metropolitane. E con un’apertura sintomaticamente affidata a Les adieux à la reine, regia di Benoît Jacquot, dedicato alla madre di tutte le rivolte, la Rivoluzione Francese. Qualche highlight, pizzicato nel fluviale programma strutturato nelle sezioni Concorso, Panorama, Forum, Shorts, Generation, Special, Retrospective, Homage, Culinary Cinema? Grande attesa per l’anteprima europea del film di Stephen Daldry candidato all’Oscar, Extremely Loud And Incredibly Close, tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer, per lo Zhang Yimou di The Flowers of War, rievocazione del massacro di Nanchino nelle vicende di alcune prostitute salvate da un missionario che le nasconde in una chiesa. E per il grande Werner Herzog, con Death Row, che va a scavare sulla criminalità e sul sistema giudiziario americano. Temi che ritornano con l’unico film italiano in concorso, Cesare deve morire, dei fratelli Taviani, docu-fiction realizzata nel carcere di Rebibbia.
Fra le scelte che negli ultimi anni paiono garantire il plauso del pubblico – non sempre quello della critica, in verità – c’è indubbiamente anche la trasversalità disciplinare. E Berlino non si sottrae alla tentazione, infarcendo il programma di titoli che si avventurano verso altre galassie creative: in qualche caso mettendo direttamente alla cinepresa personaggi usi alla transumanza, come il fotografo, videomaker e performer austriaco Rainer Ganahl, regista di The condition of the working class in England – Little Ireland 1842 / 2011, omaggio alla memoria dell’operaia analfabeta Mary Burns, ispiratrice del libro di Engels citato nel titolo, caposaldo del suo pensiero. O come il precocemente scomparso (2010) Christoph Schlingensief, Leone d’Oro all’ultima Biennale d’Arte di Venezia per il suo padiglione nazionale della Germania, qui in programma con la prima mondiale di Say Goodbye to the Story, mediometraggio (23 min.) che è un po’ il suo testamento spirituale. Il film in cui la sua idea di film è realizzata più autenticamente, solo immagini e musica, nessuna storia, nessun titolo: “Tutto è in divenire e, in ultima analisi, in decomposizione”. “Ognuno deve imparare”, parole dello stesso regista, “che a volte vi è un buon momento per dire addio alla storia. Dopo tutto è perfetto”.
In altri casi – la maggior parte – sono le tematiche scelte, le trame stesse delle opere a celare la contaminazione, con opzioni, va detto, raramente in linea con il contesto generale della rassegna. Sceneggiature quasi sempre di carattere monografico: come nel caso dell’attesa prima europea di Marina Abramovic. The Artist is Present, film di Matthew Akers debuttato al Sundance Film Festival che delinea un ritratto intimo dell’artista raccontando la sua grande personale del 2010 al MoMA di New York. Più in linea con il tema del mondo in rivolta (anche se francamente un po’ appesantito dalla sovraesposizione mediatica che inflaziona il soggetto) è Ai Weiwei: Never Sorry, di Alison Klayman, documentario frutto di due anni di pedinamento dell’artista/attivista; e sicuramente efficace è la riproposizione di Goya, di Konrad Wolf, opera del 1969 che riporta l’attenzione su uno degli artisti più “scomodi” della storia.
Meteore avulse dal clima di questa Berlinale appaiono Anton Corbijn Inside Out, di Klaartje Quirijns, Gerhard Richter Painting di Corinna Belz (era necessario rivederlo?), 349 (for Sol LeWitt) di Chris Kennedy. Incuriosiscono Parabeton – Pier Luigi Nervi and Roman Concrete, di Heinz Emigholz, “biografia” del grande architetto italiano maestro della costruzione in cemento basata sui suoi edifici, ed El Bulli – Cooking in Progress, di Gereon Wetzel, nuova tappa della consacrazione artistica del superchef spagnolo Ferran Adrià. Ma è sicuramente Zavtra, di Andrey Gryazev, il miglior testimone della vis rivoluzionaria che alligna nel panorama creativo attuale: protagonista il gruppo di artisti russi Voina, fra i pochi che riescono ancora a scuotere un ambiente sempre più prevedibile e ingessato.
Massimo Mattioli
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