Sull’inesistenza del cinema italiano contemporaneo
Il cinema italiano ha un problema molto, molto serio. Tutte le sue criticità, che sono peraltro costantemente sotto gli occhi degli spettatori (difficoltà produttiva, insipienza creativa, obsolescenza narrativa, aridità interpretativa ecc.) possono in fin dei conti essere ricondotte a un’unica questione che riassume tutte le altre, e che ad esse preesiste, nel tempo e nella pratica: la dissociazione fondamentale, il distacco dalla realtà.
Il distacco dalla realtà è un male comune – come si è spesso detto su queste colonne – ad altri territori creativi e culturali, nazionali e non (arte visiva, letteratura, musica) ma nel cinema risulta particolarmente evidente. Per una serie di ragioni storiche.
Il cinema, si sente spesso dire, è un’industria (e un’industria non particolarmente in salute, al di qua e al di à dell’Atlantico). Un’industria che ha una forte componente artistica e creativa al suo nucleo: si potrebbe dire, quasi, l’idea platonica di industria culturale. Ora, una delle ragioni per cui il nostro cinema, dagli Anni Quaranta agli Anni Settanta, è stato un modello per il pianeta risiede nell’attività, oltre che di geniali registi e sceneggiatori, di maestranze artigianali iper-competenti che tramandavano di generazione in generazione saperi elevatissimi (lo stesso Mario Bava, per dire, era figlio di uno di questi straordinari tecnici-artigiani-artisti, e a sua volta ha poi trasmesso al figlio Lamberto gran parte di ciò che aveva appreso). La maggior parte di questa tradizione nazionale è stata dispersa negli Anni Ottanta, con la diffusione delle tv private e la crisi delle sale cinematografiche in tutta Italia, che si è tradotta subito dopo o addirittura contemporaneamente in crisi del cinema italiano tout court.
Questa crisi perdura ancora oggi – e ha assunto nei decenni successivi tratti addirittura paradossali: in breve, produttori cresciuti in batteria allevano in batteria autori, registi e attori allo scopo di soddisfare esigenze che non sono affatto del pubblico, ma che esistono solo nella loro testa. La supposizione e l’induzione di queste esigenze non fa altro che confermare ciò che è già esistito negli ultimi decenni.
Ogni grande stagione culturale – e quindi anche cinematografica – consiste principalmente, invece, in un livello elevato di innovazione. L’innovazione riguarda, prima di tutto, lo sguardo. Il Neorealismo è stato un nuovo sguardo, una nuova prospettiva sulla realtà: il riconoscimento della realtà (fuori dalla sala) attraverso il suo rispecchiamento sullo schermo (all’interno della sala). Questo rispecchiamento è, di fatto, il posizionamento di se stessi all’interno del mondo e della realtà stessa. È un processo continuo, che ha a che fare con la vita individuale e collettiva.
I film italiani degli ultimi venti anni, purtroppo, non sono per la stragrande maggioranza portatori di un punto di vista innovativo. Al contrario, della realtà nazionale e occidentale offrono una rappresentazione congelata, un teatrino di stereotipi. Aderiscono cioè completamente alla zona finzionale, a una rappresentazione che esclude il suo oggetto (la società, la storia, le relazioni umane: la vita, appunto) al punto da prescindere drammaticamente da esso, nell’illusione addirittura di sostituirsi ad esso. È un’illusione, appunto: ma ha avuto conseguenze devastanti sulla percezione della nostra identità, e delle mutazioni a cui era andata incontro nel frattempo. Il racconto falsato ha finito per falsare anche la comprensione di processi e meccanismi fondamentali.
A questo, come sempre, ci sono le dovute eccezioni, certo: solo per fare due esempi, Lacapagira (Alessandro Piva 2001), e certamente il recentissimo ACAB di Stefano Sollima (non a caso, anche lui ha appreso bene dal padre Sergio, sopraffino regista di western e poliziotteschi politici), tratto dal libro-inchiesta di Carlo Bonini. Se ne possono citare anche altri: ma sono e rimangono, appunto, eccezioni. E non costituiscono affatto la norma del nostro cinema.
La norma è la didascalica narrazione dell’inesistente, la messa in scena di semplificazioni e stereotipi socio-culturali. Quello che si è prodotto in questi ultimi venti anni è un cinema privo di mordente, che anche quando potrebbe permettersi di osare – grazie a tematiche che vengono sfiorate e ad attori di talento da spremere – decide di ricadere sempre nell’intrattenimento, nel cosiddetto cinema di evasione e purtroppo, altrettanto spesso, nel buonismo di una generazione che ha perso il filo del discorso e parla per frasi fatte senza soluzione di continuità.
Ne è purtroppo un esempio Terraferma di Emanuele Crialese, che rimane sulla superficie delle cose, affidandosi a interpretazioni caricaturali e personaggi da commedia dell’arte (lo sbirro cattivo, il giovane sensibile e problematico, il tamarro gestore del bagno ecc.) per descrivere un’Italia fatta di macchiette e banalità, dove compaiono solo a sprazzi (ne è un esempio la riunione dei pescatori per discutere le incongruenze e la difficile coesistenza tra la legge del mare e quella dello Stato) la discrezione e la sensibilità poetica delle sue opere precedenti (Respiro e Nuovomondo).
Oppure, il molto osannato This Must Be the Place, in cui un ormai totalmente americanizzato Sorrentino presenta in una forma perfetta la storia più antica del mondo: il viaggio come strumento di conoscenza di se stessi, di crescita, come soluzione ultima e unica per affrontare le proprie paure, il proprio passato, i propri fantasmi. Una tematica antica come il mondo, semplice ed efficace per un pubblico giovane, confezionata ad hoc negli studios di Hollywood, con un protagonista d’eccezione in un “costume di scena” accattivante.
Non ci sono scuse, purtroppo: il grande cinema italiano è scomparso e ha lasciato la scena a sceneggiatori e registi che, anche se capaci, hanno deciso di votare la propria arte e la propria vita alle esigenze – supposte, presunte, indotte – della produzione e della distribuzione.
Christian Caliandro e Giulia Pezzoli
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