Artisti in residenza: il caso ISCP
Dennis Elliott è canadese e voleva fare l’artista. Arrivato a New York negli Anni Ottanta, ha presto capito che la sua strada era un’altra. Dopo alcune vicissitudini e molte esperienze in campo educativo, nel 1994 ha fondato l’ISCP - International Studio and Curatorial Program, uno dei programmi di residenza per artisti e curatori più famosi al mondo. E quello più ambito nella Grande Mela. L’abbiamo intercettato di passaggio in Italia e ci siamo fatti raccontare com’è nata la sua “creatura”.
Quanti studi avete a disposizione per il programma di residenze?
Sono 35, fra artisti e curatori. Il numero dei curatori sta aumentando, ultimamente. Quando abbiamo iniziato era veramente difficile trovare fondi per i curatori e ci accontentavamo di ospitarne due o tre ogni anno. E stranamente la maggior parte di loro proveniva dall’Est Europa, dai Paesi dell’ex Unione Sovietica, finanziati dal Trust for Mutual Understanding, una fondazione molto attiva a New York e una delle prime con cui abbiamo collaborato. Da allora le cose sono molto cambiate e in genere ospitiamo una quindicina di curatori ogni anno, provenienti da tutto il mondo. Non abbiamo curatori italiani. Però abbiamo avuto in tutto 24 artisti italiani dal 1994 a oggi.
Una delle iniziative più apprezzate dai partecipanti al vostro programma sono gli incontri con critici e curatori da tutto il mondo.
Sì, anche io credo che sia un po’ il cuore del programma. Abbiamo dei “guest critic” che vengono a visitare gli studi ogni due settimane e ricevono un onorario per farlo. Gli artisti e i curatori in residenza possono iscriversi per partecipare a questi studio visit, se non sono via per lavorare a qualche mostra. In genere i critici fanno dieci incontri al giorno, di quaranta minuti l’uno, per un totale di 25/30 incontri. Se vivono a New York, vengono una volta a settimana in settimane diverse, ma per gli stranieri è piuttosto dura perché devono condensare tutto in tre giorni consecutivi. Quando sono troppo impegnati per vedere tutti gli studi, li lasciamo scegliere quali artisti visitare oppure li invitiamo a fare un giro più informale. Gli artisti si lamentano sempre perché le visite di quaranta minuti sono troppo brevi, ma è difficile fare di più.
Dall’Italia vorremmo invitare Irene Calderoni: ho visto la mostra che ha curato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino [Press Play, N.d.R.] e mi è piaciuta molto. Non vedevo una mostra così bella da tanto tempo.
Parliamo dei curatori: cosa si aspettano di ottenere dalla residenza?
Abbiamo previsto un ufficio per curatori, critici e storici dell’arte sin dall’inizio in 1994, ma non è venuto nessuno fino al 1999, quando abbiamo ospitato una curatrice della Repubblica Ceca, sempre finanziata dal Trust for Mutual Understanding. Da allora ne abbiamo avuti diversi, anche se meno numerosi degli artisti.
Cosa fanno durante il periodo newyorchese?
Non diciamo a nessuno dei residenti (artisti o curatori) esattamente cosa devono fare. Mandano una proposta di lavoro insieme al curriculum quando fanno l’application, ma sappiamo bene che spesso il progetto cambia una volta che sono sul posto.
Molti artisti italiani sono passati dai vostri studi. Al momento per esempio ci sono Donato Piccolo, Loredana Lillo, Alberto Tadiello e Patrick Tuttofuoco.
Sì, abbiamo un buon numero di italiani. Il rapporto con il vostro Paese è iniziato con Viafarini. All’epoca avevo appena iniziato e non sapevo nemmeno se avrebbe funzionato. È bene ricordare che non elargiamo fondi e non ne prendiamo, a parte un piccolissimo sostegno dal Governo. Tutte le residenze vengono “sponsorizzate” da soggetti esterni (ministeri, fondazioni, associazioni o privati). Patrizia Brusarosco di Viafarini è venuta da me indirizzata da qualche artista e per un paio d’anni ha mandato delle persone. Poi è arrivato Valerio Berruti, che era veramente entusiasta del programma e una volta tornato deve aver sparso la voce presso altri artisti.
Il Ministero degli Affari Esteri italiano mandava già degli artisti a New York presso la Columbia University tramite il Gotham Prize, ma erano isolati lì e quindi anche loro venivano all’ISCP. In seguito abbiamo firmato contratti anche con il Ministero dei Beni Culturali e con Terna. Così nel 2010 abbiamo avuto ben cinque artisti italiani che, considerando il momento di difficoltà economica, è davvero sorprendente. Sono stato al Ministero degli Affari Esteri stamattina e sembra che il contratto sarà rinnovato anche per il 2013.
Quante applicazioni ricevete ogni anno?
Non riceviamo applicazioni direttamente, in genere. Facciamo degli accordi con istituzioni, perlopiù ministeri e agenzie governative, e sono loro che scelgono gli artisti e quindi gestiscono eventualmente anche le application. In realtà gli artisti possono rivolgersi direttamente a noi, ma devono avere uno sponsor. Nel caso in cui riceviamo application che riteniamo interessanti ma che non sono finanziate, contattiamo l’artista e gli diciamo che saremmo contenti di ospitarlo, ma che è necessario trovare per lui una forma di sostegno economico. Di questo genere di richieste ne riceviamo circa 12 al mese, rispondiamo positivamente a una ventina in un anno, ma di queste soltanto 4 o 5 riescono poi a trovare fondi.
Qual è l’età media dei partecipanti?
Direi 35 anni, circa. Un pochino più alta per i curatori, forse 37.
Cosa ti ha spinto a fondare un programma per artisti?
Avevo bisogno di un lavoro! Ero un pittore, sono venuto a New York a vent’anni come artista. A quell’età gli unici lavori che potevo sperare di fare erano come muratore o come assistente di un altro artista. E non ero entusiasta di nessuna delle due opzioni, anche se ovviamente le ho provate entrambe, come tutti. Così pensai di provare a fondare qualcosa di mio e di programmi per artisti ne ho fatti ben cinque. Ho iniziato con un progetto accademico che coinvolgeva i college in cui avevo studiato, come il Nova Scotia College e il California College of Arts. Il programma coinvolgeva diciotto college americani, quattro canadesi (io sono canadese) e uno giapponese riuniti in un consorzio, con l’obiettivo di per mandare i loro studenti più grandi a New York per un semestre. Quell’esperienza mi ha quasi ucciso, fu un incubo.
Addirittura…
Dovevo di fatto occuparmi di venticinque ragazzini a New York, che si mettevano continuamente nei guai. Dovevo tirarli fuori di prigione, o accompagnarli ad abortire e cose del genere. Erano ragazzi in gamba, ma erano lontani da casa, e la città negli Anni Ottanta era più pericolosa di ora, girava tantissima droga. Era un periodo buono per fare queste iniziative perché c’erano ancora molti soldi e le scuole volevano spenderli, ma fu veramente un’esperienza devastante. Nei miei quattro mesi liberi avevo solo voglia di andare a fare l’eremita in qualche bosco per riprendermi dallo stress.
Che tipo di programma era? Che facevano i ragazzi a New York?
Al di là delle difficoltà, offrivamo a quei ragazzi un’esperienza educativa di altissimo livello. Ogni settimana li portavo negli studi di grandi artisti come Chuck Close, Jeff Koons, Erich Fischl, dove potevano vederli al lavoro. E ogni lunedì sera c’era un critico d’arte di New York che teneva un seminario sull’arte contemporanea in città. Non c’è più niente del genere negli Stati Uniti. Quando c’è stata la recessione, dopo l’esplosione della bolla delle dotcom, il programma è stato terminato. Così avevo di nuovo bisogno di un lavoro e volevo anche fortemente uscire dall’ambiente accademico. Ho lavorato per una Fondazione in Colorado, uno studio program solo per americani che ha una commissione molto prestigiosa e molti soldi. Io però mi annoiavo, non era stimolante. Assegnavamo diciassette studi ad altrettanti artisti per un anno, degli spazi bellissimi, grandi e costosi, a Dumbo. Ma non c’era nessun programma associato, nessuna didattica, nessuna iniziativa.
Per un periodo ho anche lavorato per Hollywood, ma non ero veramente interessato a quell’ambiente. E poi, nel 1994, ho fondato l’ISCP.
L’ISCP esiste ormai da diciotto anni, e quando avete iniziato l’idea di “residenza per artisti” non era così diffusa. Poi, negli ultimi anni c’è stato un proliferare di questo tipo di iniziative. Cosa ne pensi?
Quando abbiamo iniziato i programmi di residenza erano pochissimi e la maggior parte erano del tipo “classico”. Quello in cui l’artista va in posti sperduti e si mette in comunicazione con la propria musa, come la MacDowell Colony, ad esempio. L’unica residenza “urbana” era quella del P.S.1. Due circostanze mi hanno aiutato: la recessione, che mi ha permesso di usufruire di affitti veramente bassi, e il fatto che gli sponsor fossero insoddisfatti del rapporto con il P.S.1. Non si sentivano trattati bene e non gli veniva permesso di scegliere gli artisti. La mia formula invece era: se sei tu a pagare, tu devi scegliere l’artista.
Avete cambiato sede diverse volte negli anni. Come mai?
Inizialmente eravamo a Tribeca, molto prima che la zona “esplodesse”. Ci siamo rimasti per sette anni prima che tutti scoprissero il quartiere e i prezzi schizzassero alle stelle. Il mio affitto aumentò del 400 per cento. Così ci siamo spostati a Midtown, dove siamo stati per altri sette anni, prima di approdare a Brooklyn, dove siamo ora.
Come vi trovate a Brooklyn?
Io ero molto legato a Manhattan e un po’ snobisticamente non mi piaceva l’idea di spostarmi a Brooklyn. È una zona industriale, molto “rozza” da un certo punto di vista. Poi, la sera dell’inaugurazione, un giornalista dell’NPR mi ha intervistato sul tetto dell’edificio mentre guardavamo il quartiere dall’alto. Il panorama era composto da una gigantesca stazione di benzina, di quelle che possono rifornire trenta macchine per volta, uno strip club, uno sfasciacarrozze, cose così.
Così dissi al giornalista: “Questa potrebbe essere la zona industriale di una qualsiasi città degli Stati Uniti, ma c’è una grossa differenza. E questa differenza è che ci sono più artisti, curatori e professionisti dell’arte per metro quadrato a Bushwick, Williamsburgh ed East Williamsburgh che in qualsiasi altro posto. A New York, negli Stati Uniti e nel mondo”.
Non male come slogan…
Sì, infatti ha funzionato! Da quel giorno l’ho usato in ogni cocktail, ogni intervista e ogni richiesta di fondi. La cosa divertente è che poi, diverso tempo dopo, prendendo un caffè con Dana Schutz, un’artista molto importante in città al momento, lei mi disse: “Dennis, ho saputo che hai spostato l’ISCP a Brooklyn”. E io: “Sì, grazie, ci piace molto il quartiere”. E lei: “Sai che cosa ho sentito dire? Che ci sono più artisti e curatori per metro quadrato lì che in qualsiasi altra parte del mondo!”. Come si dice: “What goes around comes around”…
New York è ancora la città dei sogni per gli artisti? Cosa si aspettano di trovare?
L’aspetto commerciale è senz’altro uno dei più importanti. Molti hanno il mito di Chelsea, anche se dopo il disastro dei subprime e dei mutui la reputazione generale di Chelsea è molto scesa. Una cosa che ho notato è che oggi gli artisti che vengono in residenza sono molto più interessati a questioni politiche e sociali, questioni che venti o trent’anni fa non erano così preminenti. L’arte pubblica, per esempio, è aumentata moltissimo e l’ISCP ha un dipartimento apposito per il coinvolgimento della comunità locale (i partecipatory projects). Questo genere di progetti sta anche ricevendo maggiori fondi, dal governo e dalle istituzioni locali.
Di recente abbiamo installato un lavoro di Rena Leinberger sotto al Queensboro Bridge, un’opera pubblica che è stata finanziata dal Dipartimento dei Trasporti e c’era tantissima gente all’inaugurazione. L’attenzione per il lavoro degli artisti, anche in contesti non convenzionali, è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni.
Valentina Tanni
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