Good night, and Good Luck
Trent’anni di storia patria in 5mila battute. Perché la crisi che stiamo affrontando non assomiglia a quella di cui parlava Roosevelt solo per la sua parte economica. È la questione sociale, e politica, il cuore della questione. E il problema maggiore è la rimozione di questa componente fondamentale.
Quando diciamo che occorre ricostruire la base morale dell’intera nazione, stiamo in realtà considerando il risultato di un intero processo storico. Durato più di trent’anni.
Lo smantellamento del sistema di valori di riferimento che aveva guidato la Repubblica dalla sua nascita postbellica agli Anni Settanta – certamente tra alti e bassi, con luci e ombre, punte di nobiltà e zone di bassezza – ha richiesto un’opera capillare e chirurgica di rimozione, attraverso la costruzione di un’intera ideologia e di un immaginario culturale. Questo immaginario non è stato, ovviamente, solo autogenerato, ma si è prodotto insieme e all’interno di un più ampio schema: quello del neoliberismo occidentale, intessuto di politica, economia, cultura popolare e di una ben determinata visione del mondo. Quella stessa visione che fece dichiarare a un anonimo funzionario della Casa Bianca, durante il primo mandato dell’amministrazione Bush: “Adesso siamo un impero e, quando passiamo all’azione, siamo noi a creare la realtà. E mentre voi studiate quella realtà […] noi passiamo di nuovo a all’azione e creiamo altre realtà, che voi potrete studiare, e così i conti tornano”.
È quella stessa visione che ha fatto osservare a Maurizio Ferraris, nell’ormai celebre prima formulazione del Manifesto del New Realism (la Repubblica, 8 agosto 2011), appena divenuto anche un libro: “Nei telegiornali e nei programmi politici abbiamo visto regnare il principio di Nietzsche ‘non ci sono fatti, solo interpretazioni’, che pochi anni prima i filosofi proponevano come la via per l’emancipazione, e che in effetti si è presentato come la giustificazione per dire e per fare quello che si voleva. Si è scoperto così il vero significato del detto di Nietzsche: ‘La ragione del più forte è sempre la migliore’”.
La complicazione principale, nel caso italiano (tutto peculiare, come del resto quasi ogni cosa che riguardi il nostro Paese e le sue vicende), è data dal fatto che l’interpretazione distorta del principio “non ci sono fatti, solo interpretazioni” ha riguardato tutte le parti politiche (e sociali). Nessuna esclusa. Qui, infatti, ci sono almeno due o tre generazioni che, sganciandosi progressivamente dalla realtà della loro vita e di ciò che stava accadendo a livello collettivo, hanno progressivamente smarrito la capacità di distinguere il “bene” dal “male”, il “giusto” dall’“ingiusto” (convincendosi nel frattempo del fatto che questa indistinzione fosse perfettamente contemporanea, e legittima). E soprattutto – ciò che costituisce l’aspetto forse più grave di questo fenomeno – hanno sviluppato un’incapacità cronica, letteralmente patologica di riconoscere, proteggere e coltivare il “bene comune” (e non il compiacimento momentaneo e la soddisfazione immediata di esigenze contingenti).
È la fase della negazione – o meglio, tecnicamente, del “diniego”, come momento ulteriore, ancora più grave, della rimozione. Questo è il motivo principale per cui abbiamo, oggi, la necessità di riaffermare e di ristabilire valori essenziali (come i “beni comuni”, la dignità del lavoro, la solidarietà, la condivisione delle regole e dei diritti), aspetti una volta noti ed elementari (e man mano privati di senso e di contenuto: ridotti a scatole vuote). Perché si sono persi per strada. Sostituiti, nel corso di una lunga, rapidissima mutazione “rivoluzionaria”, da altri (dis)valori che hanno progressivamente dominato e governato la nostra società.
Alla base di questo sistema di valori totalmente negativo e distorto c’è chiaramente un fattore tremendo: la spinta a cancellare l’altro, perché non solo ci sono prima io, ma io è l’unica cosa che esiste e che importa. Dietro questi comportamenti e atteggiamenti, individuali e collettivi, c’è ovviamente una fortissima carica autodistruttiva, oltre che distruttiva. Non riconosco l’altro perché non riconosco – e, cosa ancor più grave: non voglio riconoscere – me stesso. È una strana forma di autoriflessività, italianissima, in cui il soggetto più si rispecchia e meno si conosce: si perde. Si annulla.
Occorre, perciò, ripartire – e immediatamente – da qui: dal recupero della dimensione dell’altro, del “noi”. Che poi vuol dire società, comunità, collettività, al di fuori della quale l’individuo non vive, e neanche – se è per questo – sopravvive. Questa dimensione è infatti l’unica che possa posizionarci chiaramente e positivamente nel mondo. È l’unica, cioè, in grado di avviare la ricostruzione e la riappropriazione della nostra identità (individuale e collettiva), e la sua proiezione in una dimensione finalmente di prosperità e comune. La lezione (almeno, una delle lezioni) da trarre dal ventennio appena trascorso è che il benessere acquisito dai pochi a sfavore dei molti non dura a lungo, e ha conseguenze nefaste sull’intero sistema sociale.
L’aveva capito molto bene, settant’anni fa (all’indomani di un’altra gravissima crisi, con cui quella attuale fa evidentemente il paio) Franklin Delano Roosvelt: “Ho già detto che non possiamo accettare che mezza Nazione prosperi e l’altra metà sia alla bancarotta. Se tutta la nostra gente può contare su un lavoro, una paga equa e giusti profitti, ognuno può comprare i prodotti realizzati dal suo vicino e l’economia funziona. Ma senza gli stipendi e i profitti della metà del Paese, l’economia funziona solo a metà. Né è di grande aiuto l’eventualità che la metà fortunata sia davvero molto ricca: la cosa migliore è che tutti siano ragionevolmente benestanti” (Il “National Recovery Act” – terza chiacchierata al caminetto, 24 luglio 1933).
Christian Caliandro
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