Lana del Rey, o della perfetta costruzione del manufatto pop
Non (ci) bastavano Amy Winehouse e Lady Gaga? Ovviamente no, soprattutto se la prima se n’è andata e la seconda è passato al “quadro successivo”. E allora via con un’altra pop artist bella e pronta, ben confezionata e capitata al momento giusto ma inatteso. Un fenomeno, senza dubbio. Magari da baraccone, ma pur sempre un fenomeno.
I still think that criticizing for or against is of equal value,
meaning that the amount of publicity is proportional
to the number of lines written for as well as against
Marcel Duchamp
Più o meno intorno al mese di dicembre, gli addetti ai lavori dell’industria musicale si mettono all’opera per stilare una sorta di “best of” dell’anno appena trascorso, compilando classifiche, lanciando sondaggi, scorrendo elenchi e, in sostanza, riassumendo. Dicembre, in questo senso, è un mese a forma di limbo, che porta con sé un senso di meritato riposo, complici anche le vacanze natalizie. L’hype si fa meno inquieto, i singoli in radio parlano solo d’amore e buoni sentimenti e le classifiche abbondano di raccolte e greatest hits pronte a finire ai piedi di ogni albero di Natale.
Ma nel dicembre 2011 compare Lana del Rey. Labbra gonfie e movenze da femme fatale, Lana del Rey, al secolo Elizabeth Grant, smuove le acque dell’industria discografica e, con una velocità impressionante, rimette in moto l’intero sistema della critica musicale, sempre pronto a individuare la “next big thing”. Il mainstream, per l’ennesima volta, raschia il fondo del barile, pescando a piene mani dal grande bacino di artisti indie che, con un deciso cambio d’immagine, possono funzionare anche per il grande pubblico. La top artist del 2012 è servita su un piatto d’argento.
Le tappe sono da scuola del sogno americano: video casalinghi che in poco tempo raggiungono i 23 milioni di visualizzazioni, contratto con una major, uscita del disco e conseguente scalata delle classifiche di mezzo mondo. Born to die, mai ci fu titolo più azzeccato, nell’immaginario collettivo prende il posto di quella Amy Winehouse veramente nata per morire, aggiungendo alla lista degli ingredienti un bel po’ di paletti estetici e comportamentali volti a rassicurare il grande pubblico: se da una parte c’era un decadimento tangibile, fatto di “Rehab” e reali zone d’ombra, con Lana del Rey abbiamo una perfetta interpretazione della “bad girl” degli Anni Zero, con i suoi amori impossibili e gli incidenti con tanto di auto in fiamme. Ma non preoccupatevi, è tutta finzione, come le fughe prospettiche dei quadraturisti settecenteschi che non a caso appaiono nel videoclip di Born to die.
Non si può certo dire che la poetica di Lana del Rey (o la poetica dei suoi autori) non sia stata chiara fin dagli esordi: il primo singolo lanciato in maniera virale attraverso YouTube, intitolato Video games, è un inno alla realtà virtuale (i videogame, appunto) mascherato da canzone d’amore. Born to die e Blue jeans, rispettivamente secondo e terzo singolo, mischiano il glamour alla fatalità della condizione umana, James Dean e maledettismo da supermercato, il tutto accompagnato da motivetti musicali di una perfezione pop decisamente sospetta. E il video di Born to die rappresenta la classica cigliegina sulla torta, una leccornia per tutti gli studiosi di estetica contemporanea: il barocco, eros e thanatos, tatuaggi e bandiere americane. Il kitsch come nemmeno quell’intellettuale pop di Lady Gaga era riuscita a utilizzare. Kitsch, studiata costruzione del personaggio, particolari anatomici esagerati, celebrità “da quindici minuti”: la parrucca platinata di Andy Warhol che fa capolino, come al solito, da dietro la scena, in un richiamo ulteriore a quelli che sono le fortunate ricostruzioni del personaggio/artista.
Da un punto di vista puramente estetico, Lana ed Andy sanno di finzione come i set cinematografici in cartone; ed entrambi ricorrono agli stratagemmi del pop con il medesimo obiettivo: la fama. “Singing in the old bars / Swinging with the old stars / Living for the fame”, canta la nostra bella “gangsta Nancy Sinatra”. E ancora: “Money is the reason we exist / Everybody knows it, it’s a fact / Kiss, kiss”, con quella spudorata sincerità che ha rovinato i piani dei numerosi indie-fan della prima ora, rivelando un cinismo e una chiarezza di vedute da Factory warholiana. Una trasposizione del dollaro di Warhol nel sistema musicale, quasi come sputare in faccia alla (ancora) presunta sacralità e sincerità dell’ispirazione poetica.
Il booklet di Born to die, la copertina, l’apparato grafico insomma, è ricco di ulteriori particolari che contribuiscono alla costruzione di questa “parata della finzione” in una serie di richiami al padre della Pop Art: le pose da diva Anni Cinquanta e lo sguardo distante con cui Lana si presenta in copertina (lo sguardo alienato del Warhol degli autoritratti), le macchie di sangue (i richiami alla morte nella serie degli Skull paintings e nelle Disaster series), la bellezza delle rose rosse, corrotte da alcune piccole macchie di ossidazioni (gli Oxidation paintings), tutta una splendida confezione del prodotto pop, rimasticato e servito alla folla impaziente di quest’epoca da streaming selvaggio.
Intendiamoci, la questione della costruzione del personaggio non è per nulla innovativa all’interno di una logica da sfruttamento di icone musicali, e pure la riduzione a stereotipo delle realtà appartenenti al sottosuolo musicale fa parte di un meccanismo già ben oliato da anni di marketing: già con il punk e con il fratello minore, il grunge, per non parlare della scena elettronica che con techno e dubstep ha fatto la sua discreta parte, si poté assistere a un fenome simile, a uno stadio ancora embrionale forse, ma pur sempre lucido ed efficace.
Quello che sorprende con il fenomeno Lana del Rey è quanto questa costruzione appaia spudorata in ogni sua manifestazione, quasi una ricetta perfetta nella logica di una creazione puramente commerciale; insomma, i Sex Pistols erano sporchi e cattivi e, per quanto fossero una band pensata a tavolino dal geniale Malcom McLaren, mantennero sempre quel carattere di schegge impazzite che impedì loro una carriera duratura. Al contrario, Lana del Rey viene intesa, almeno nei piani dei suoi autori, come un sommario di tutto ciò che sia funzionale alla logica di mercato, con l’obiettivo ultimo di dar vita alla star del pop per eccellenza, in cui ogni dettaglio possa funzionare per il più largo spettro di pubblico pagante. Lana del Rey è il cyborg pronto ad adattarsi a ogni occasione: sofferenza edulcorata sullo stile di Twilight e consapevolezza del successo, un colpo alla botte e uno al cerchio.
Se ogni giorno siamo pronti a indossare una maschera, sia essa quella virtuale del social network o quella ben più tangibile dello status simbol, Lana del Rey è, in questo senso, il coronamento del nostro desiderio di essere perennemente mascherati, sempre pronti a quello che la situazione richiede. Incapaci poi di gestire realmente i personaggi che ci cuciamo addosso, così come Elizabeth Grant si è dimostrata, fino ad ora, incapace di gestire l’avatar (altro concetto fondamentale dell’interno meccanismo) Lana del Rey.
Born to die: benvenuto 2012!
Alessandro Marzocchi
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