Marco Tirelli: la pittura è il campo da gioco
La città di Roma, i ricordi, le ombre e le assenze. Malevic, de Chirico, la politica e i mercanti. La Nuova Scuola Romana, gli anni Zero e gli Anni Settanta. Di questo abbiamo parlato con Marco Tirelli prima del suo opening a Macro Testaccio. E di molto altro si sarebbe potuto continuare a parlare. Tutto ciò che non è scritto però sarà in mostra; inaugurazione fissata per domani 29 marzo.
La tua mostra è co-prodotta dal Macro e dal Musée d’Art Moderne de Saint-Étienne Métropole, dove si sposterà in seguito. Come nasce questo progetto?
La mostra nasce per volontà del direttore del Macro Bartolomeo Pietromarchi, con cui ho da subito condiviso l’idea di utilizzare entrambi i padiglioni di Macro Testaccio.
Praticamente i due terzi dello spazio che viene solitamente occupato dalla Fiera Roma Contemporary.
Sono circa 1400 mq, due vere cattedrali romaniche, con tanto di navate. Ne utilizzerò una integralmente, la sezione espositiva più ortodossa. Nel secondo padiglione ho isolato invece una sorta di cella, uno spazio che aderisce alla mia idea di Teatro della Memoria; un cosmo, un concerto di opere che pur mantenendo la propria autonomia attuano tra loro un gioco di specchi, di riflessi.
Questa è la prima grande monografica a te dedicata in un spazio pubblico della tua città. Roma cerca di recuperare il tempo perduto nei confronti di alcuni figli-artisti cresciuti un po’ orfani?
Escludo che la mia mostra sia nata per questioni di romanità. Non posso non ammettere d’altra parte che per troppi anni le istituzioni in ambito artistico a Roma abbiano latitato. Partiamo dagli anni ’60 e ‘70. A parte molte cose buone ma saltuarie di scena alla Galleria d’Arte Moderna di Palma Bucarelli, il resto viveva in silenzio. Per anni il panorama contemporaneo della capitale si è sostenuto sulla sola iniziativa dei privati, personaggi straordinari come Sargentini, Liverani, Sperone. Era un mondo sotterraneo, l’epoca delle cantine teatrali, dei primi cineclub, un mondo spontaneo sì, ma parallelo, esoterico e non riconosciuto dalle istituzioni. Il passaggio a un modello anche internazionale e istituzionalizzato ha coinciso solo con all’apertura di Macro e Maxxi. Nonostante questo, i musei devono ancora contare sull’intraprendenza di poche persone che, anche se dimostrano coraggio, non sempre riescono per cause politiche a trovare un ruolo di autonomia istituzionale. Un esempio è la battaglia che sta conducendo Pietromarchi per far sì che il Macro abbia un suo statuto di Fondazione e dunque una sua autonomia.
La tua vicenda artistica e personale è riconosciuta in Italia e all’estero in stretta relazione con la cosiddetta Nuova Scuola Romana. La formula avanguardista del gruppo nasconde più benefici o più limiti?
Il mio riconoscimento, in Italia e all’estero, nasce dalla mia storia personale. La nascita del gruppo si deve a ragioni contingenti; una provenienza comune – l’accademia di belle arti, la scuola di scenografia – e la possibilità di occupare i bellissimi spazi del vecchio Pastificio Cerere. Non parlerei di “gruppo” o di “scuola”, ma piuttosto di amici che hanno avuto un percorso comune. Non abbiamo mai pensato a un programma o a un manifesto. La nostra è stata ed è un’esperienza umana molto forte di condivisione e vita comune che andava dalle notti ubriache alle discussioni filosofiche più accanite.
È rimasta sotto traccia qualche nostalgia delle origini, di quegli anni Settanta?
Non è una questione di nostalgie, registro però lucidamente una differenza nell’approccio all’arte, parlo di una maggiore velocità di relazione. Negli anni Settanta l’arte aveva una maggiore capacità “auratica”, nonostante volesse rompere i tradizionali luoghi deputati per invadere il mondo. Richiedeva una maggiore liturgia, cosa che oggi mi sembra in gran parte evaporata al calore delle maggiori preoccupazioni imposte dal “sistema dell’arte” ovvero mercato, glamour e riconoscimento sociale. Oggi respiro un’aria di disincanto che non amo. Sento sempre di più che il mondo dell’arte sia in cerca di sensazioni e non di emozioni.
Una sorta di costante pop up, per dirla in termini informatici…
E pensare che una volta si parlava di eternità dell’opera…
A proposito di durata, mi affascina delle tue opere la capacità di creare relazioni percettive mutevoli e quindi prolungate nell’esperienza visiva. Oltre a un debito spontaneo nei confronti della fotografia – penso a Stieglitz, Steichen e Man Ray – oltre alla relazione inevitabile con la scultura, mi sembra si possa delineare nei tuoi lavori un rapporto col cinema, con la presenza solenne dello schermo proprio in funzione di questa presa sfuggente dell’occhio sulla tela.
Queste opere sono pittura, scultura e cinema. Ma allo stesso tempo cercano di non esserlo. Non uso il pennello, ma le opere sono dipinti; non uso la macchina fotografica ma questi quadri guardano all’immagine fotografica; non sono sculture ma parlano di luoghi e spazi. Non sono cinema, ma parlano di luce e del movimento che questa genera. Per me la pittura è il campo da gioco, ma non è il gioco. Ciò che mi interessa sono le immagini nella loro indefinibili.
Per tornare brutalmente all’attualità: che ne pensi di questo momento di crisi morale ed economica? Credi possa fare bene al mondo dell’arte?
Potremmo partire dal caso della mia mostra, voluta e organizzata dal Macro col sostegno di Giacomo Guidi. Una mostra con dimensioni e scala assolutamente fuori da qualsiasi logica di mercato. Questo perché l’unica mia preoccupazione è fare Arte. Il problema è che si parla troppo spesso di sistema, di marketing, di politiche e di investimenti e questo sta banalizzando l’arte riducendola a oggetto mondano. Il sogno che l’arte può generare, l’espansione delle nostre coscienza, la sua sua capacità di incantarci, la sua possibilità di definire il mondo sono temi che hanno ben poco a che vedere con la crisi economica. L’arte è emersione. O meglio, è volo. Di tutto il resto io non mi occupo e non so niente.
Luca Labanca
Roma // dal 30 marzo al 13 maggio 2012
inaugurazione 29 marzo ore 19. 00
Marco Tirelli
MACRO TESTACCIO
Piazza Orazio Giustiniani
www.macro.roma.museum
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