Ministero della Cultura: perché non chiuderlo?
Delusione. Questa è la sensazione di operatori economici, appassionati, addetti ai lavori. La sensazione di tutti quelli che credevano che durante il ventennio berluscoprodiano i Beni Culturali fossero stati considerati meno di quanto meritavano. La sensazione di chi immaginava una svolta.
Delusione è il sentimento di tutti coloro i quali conoscono quale sia la potenzialità del mondo della cultura e di tutti i suoi addentellati. Ma poi quale potenzialità e potenzialità? Si tratta di una forza già esistente, concreta, palese fin da oggi: intesa in senso allargato (dal turismo culturale alle eccellenze enogastronomiche) la costellazione della cultura e dei suoi satelliti è oggi la prima industria del Paese. Non potenzialmente: già oggi! Si parla del 12, del 15, forse del 17 per cento del Prodotto Interno Lordo dell’Italia.
A fronte di questi numeri, il “presidio” politico e gestionale da parte del Ministero della Cultura (ecco l’oggetto della delusione di cui sopra) è, appunto, assai deludente. Con il nuovo esecutivo guidato da Mario Monti ci si sarebbe aspettata una inversione di rotta. Che non c’è stata. Ci si sarebbe aspettata una consapevolezza sulle potenzialità e sulle caratteristiche del settore. Ci si sarebbero aspettate delle idee, possibilmente innovative, non solo per tutelare ma per sfruttare a pieno il clamoroso giacimento che il Paese ha a disposizione e che, da solo, potrebbe bastare e avanzare a sostenerlo. Alla stessa maniera in cui molti Paesi del mondo campano solo grazie al loro petrolio o al loro gas naturale, l’Italia potrebbe vivere – e bene – mettendo a reddito, in maniera seria e intelligente, le proprie risorse artistiche, paesaggistiche, architettoniche, archeologiche. Ce lo diciamo da quarant’anni ormai, evitando rigorosamente di calare questa convinzione in azioni concrete.
Le azioni concrete di Mario Monti si sono personificate nella figura di Lorenzo Ornaghi. Certo, dopo così pochi mesi è ingeneroso infilare anche lui nella casella delle delusioni, ma è altrettanto difficile non farlo. Il Ministero non sembra avere la guida volitiva e proattiva che necessiterebbe; l’impronta culturale smaccatamente episcopale non aiuta; le scelte governative sul sottosegretario – la poltrona è andata a Roberto Cecchi, funzionario tanto competente quanto fedele alle esigenze della politica, di qualsiasi colore essa sia – non hanno stemperato il sentimento poco entusiastico del mondo della cultura. Si aggiunge a tutto ciò il probabile scarso feeling tra Ornaghi e Cecchi, con tutte le conseguenze del caso. Tra queste conseguenze la possibilità, la probabilità, il rischio che i fondi pubblici (o ciò che ne resta) profusi in un Ministero privo di nerbo vadano a solleticare gli interessi di conventicole, consorterie, comitati d’affari.
Una serie di delusioni e di paure. Una continua emorragia di risorse. Una incapacità di far rendere il tesoro sopra il quale si sta seduti. L’immobilismo urticante di molte soprintendenze. Mettete tutto insieme e facilmente comprenderete l’idea che, silente, serpeggia negli entourage degli addetti ai lavori: ma questo Ministero della Cultura non sarà mica diventato un carrozzone che genera più problemi di quelli che risolve? Non sarà mica arrivato al capolinea del suo ruolo? Non sarà mica il caso di sopprimerlo assegnando le deleghe allo Sviluppo Economico, visto che la cultura deve e può essere il motore anche industriale del Paese? D’altronde, prima del 1974 il Ministero dei Beni Culturali proprio non c’era e il nostro patrimonio non era di certo nello stato riprovevole in cui è oggi…
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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