Rompere le scatole
Dalla madeleine in forma di scatola di latta dei biscotti Plasmon (a uso di contenitori di matite colorate) all’attuale scatolame. Non quello a uso alimentare, bensì pseudo-culturale. Il libro, insomma. Che talvolta si moltiplica, come pane e pesci di neotestamentaria memoria.
Mi sono sempre piaciute le scatole di latta. In particolare ne ricordo una dei biscotti Plasmon in cui da bambino conservavo le mie matite colorate. Era gialla e rossa con una piccola maniglia di ferro sul coperchio e il disegno quasi neoclassico di un uomo seminudo intento a scolpire una colonna con martello e scalpello. Le grandi scritte “Biscotti al Plasmon” e “Marca di fabbrica” sono sicuramente tra le prime frasi che ho imparato a leggere subito dopo le sigle sulle targhe delle automobili durante l’annuale viaggio estivo con i miei genitori.
Quella scatola fa parte della mia vita almeno quanto l’appuntamento quotidiano con le strazianti storie dell’Uomo Tigre e della sua violacea nemesi Mister X e il mangiadischi arancione in cui infilavo i miei 45 giri preferiti. Fanno parte, per così dire, del mio bagaglio nostalgico.
Era davvero una bellissima scatola. Così bella che dopo un po’ mi sono scordato che conteneva matite colorate. È rimasta su un mobile a guardarmi crescere e a guardarmi usare altre scatole e astucci meno romantici e colori diversi da quelli che conteneva. È rimasta immobile come una brava scatola di latta deve fare. L’ho persa di vista qualche anno fa. Probabilmente qualcuno l’ha buttata via insieme a tutte le matite. Era raschiata e la maniglia di ferro arrugginita si staccava continuamente. Delle matite non si è occupato più nessuno. Alcune, mi sembra di ricordare, erano quasi nuove e ben temperate. Le hanno buttate via, contenuto e contenitore. Succede così quando la scatola è più interessante del suo contenuto. Succede che se si perde interesse per la scatola, nessuno si chiede più quale sia il contenuto.
Succede così, mi pare, per la narrativa italiana. Decine di migliaia di libri-scatola, alcuni con bellissime copertine e titoli intriganti, altri meno appariscenti a seconda di quanto sia lungo il pelo dell’editore (più o meno a pagamento). Succede allora che anche gli editori non si preoccupano più del contenuto del libro-scatola quanto di chi sia l’autore o, per essere più precisi, di quanta gente conosca, di che tipo di relazioni sociali abbia, di quante scatole possa piazzare sul mercato. Tanto quelli che compreranno la scatola non la apriranno e i giornalisti che ne scriveranno la recensione sanno benissimo che del padrone della scatola non si può parlare male e se si può parlare male di lui non è il caso di inimicarsi l’editore per una scatola che, in fondo, nessuno si prenderà la briga di aprire.
Succede così che un libro-scatola (Gli occhi di mia figlia di Vittoria Coppola) stampato in mille copie da un piccolo editore salentino (Lupo Editore, nel caso specifico) salta alla ribalta della stanca cronaca culturale italiana per aver stravinto il premio Billy del Tg1, ottenendo sul web qualcosa come 170mila voti. Un’unica voce (quella del giornalista Felice Blasi del Corriere del Mezzogiorno) si alza per chiedere conto dell’enorme disparità tra il numero di copie stampate e quello di voti racimolati. Com’è possibile – si chiede Blasi – che 162.000 votanti abbiano letto un libro stampato in mille copie? Semplice, rispondo io, hanno votato la scatola. In fondo allo Strega o al Campiello succede la stessa cosa ogni anno e nessuno si lamenta più di tanto, ché a rompere le scatole non sono buoni tutti.
Cristò
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