Affaire Maxxi: parla Umberto Croppi
Esce oggi sulle colonne de “Il Tempo” di Roma un commento dell’ex assessore all'articolo di Davide Giacalone pubblicato sul quotidiano. Il direttore lo ha pubblicato, con una risposta dello stesso Giacalone, tagliandone alcuni passaggi per motivi di impaginazione. Il testo integrale lo potete leggere qui di seguito.
Gentile direttore,
l’ipotesi di commissariamento del Maxxi circolata in questi giorni, che si fonderebbe sulla pretesa cattiva gestione da parte dei suoi amministratori, pone una questione che trascende il caso specifico, come giustamente sottolinea Davide Giacalone sulle colonne de Il Tempo.
La questione è quanto si debba spendere per istituzioni culturali pubbliche, quanto e come bisognerebbe coinvolgere i privati, chi dovrebbe gestire queste istituzioni.
La tesi che sostiene Giacalone è che la cultura deve camminare con le “proprie gambe”, che un museo come il Maxxi non può aspettare “sovvenzioni” governative e che non si spiega perché, se ha 800 visitatori al giorno, non riesce a trovare le risorse per autofinanziarsi.
Queste considerazioni e domande sono fondate su alcuni equivoci e su una leggenda che si va consolidando nel nostro Paese da qualche anno, cioè che le istituzioni culturali possano finanziarsi da sole o che i capitali privati possano sostituirsi a quelli pubblici.
Cominciamo sgombrando il terreno da un equivoco: il Maxxi non riceve sovvenzioni. Non è una istituzione privata che riceve contributi per sostenere il proprio business. Ce ne sono, in Italia e a Roma, che ricadono in questa fattispecie (e alcune di queste hanno più soldi pubblici dello stesso Maxxi) ma non è il nostro caso. Il museo di cui parliamo è interamente statale e quindi non prende sovvenzioni ma è totalmente a carico dello Stato. Non può essere diversamente e coloro che lo Stato incarica di gestirlo non hanno nessun obbligo di reperire altre risorse.
Altro equivoco: lo Stato italiano ha destinato al suo più importante museo per l’arte contemporanea 7 milioni nel 2010, 4 nel 2011, e ne prevede 2 (due) per il 2012. Per capire di cosa parliamo: allo Stato spagnolo il Reina Sofia di Madrid costa 42 milioni, il Prado 25; lo Stato Inglese investe nella Tate (dopo i tagli) 55 milioni di sterline, mentre la Francia impegna nel Louvre tra i 100 e i 110 milioni l’anno. Tanto per restare a Roma, la sola azienda speciale Palaexpo (Palazzo Esposizioni e Scuderie del Quirinale) costa al Comune intorno ai 10 milioni l’anno (sono pochi ma se li fa bastare) e il Teatro dell’Opera 17; giusto per fare un paio di esempi.
Ma non esiste al mondo un solo museo che si regga sulle proprie economie, nessuno. Intanto alcuni dei più grandi sono a ingresso gratuito (per esempio quelli inglesi) o quasi. Al citato Prado, metà dei 3 milioni di visitatori entrano gratis. In ogni caso, i costi per lo Stato variano tra il 70 e il 100%, con bilanci che vanno dai 50 ai 120 milioni.
Perfino nel caso, spesso citato a vanvera, degli Stati Uniti, dove esistono una tradizione e un sistema fiscale che favoriscono investimenti privati, il pubblico interviene, eccome se interviene. Il Metropolitan di New York riceve 14 milioni di dollari l’anno dal Comune. Persino il MoMA, interamente privato, ha in corso lavori di ristrutturazione per i quali ha un contributo pubblico di 60 milioni.
La questione è che i musei non sono imprese ma servizi pubblici, fatti per essere visitati, non per produrre soldi (come la scuola è fatta per insegnare e gli ospedali per curare, i giardini per passeggiarci, le strade per essere percorse). In più, però, i museo producono effetti economici misurabili e misurati sull’economia generale. E nel caso Italiano costituiscono la risorsa maggiore di cui si dispone. Eppure lo Stato italiano investe in cultura meno della metà della media degli altri Paesi europei e i Comuni meno di un terzo.
Per quanto riguarda i privati, questi (in un regime di garanzie e benefici che noi ci sogniamo) possono contribuire, non certo sostituirsi. Quando la Francia decise di incrementare l’intervento di privati nel Louvre, tre anni fa, portò il contributo dello Stato dai 110 milioni dell’anno precedente a 140. Per avere più soldi privati bisogna investire più soldi pubblici, non il contrario.
Ora, tornando al Maxxi, si può discutere se fosse opportuno realizzarlo, se non vi fossero altre priorità ecc. Quello che non si può dire è che non fosse chiaro allo Stato e ai cinque governi che si sono succeduti durante la sua realizzazione che si stava mettendo in pista una macchina che costa, a regime, molte decine di milioni di euro l’anno. Nonostante questo, il management incaricato di avviarne l’attività è riuscito a garantirgli lo standard richiesto a una istituzione di quel livello, pur disponendo di risorse ridicole; è stato capace di reperire risorse private pari a metà del bilancio. Ora si pensa di commissariare quella gestione perché evidenzia al proprio socio unico l’esigenza di disporre, per il prossimo triennio, di una cifra pari a un quinto di quello che istituzioni di pari grado spendono in un anno (o in un semestre): 11 milioni di euro.
Dirò di più: si può anche discutere sugli indirizzi e la gestione artistica (tenendo comunque conto delle ristrettezze in cui si muovono) dei suoi direttori, ma se c’è una responsabilità economica, questa resta tutta in capo al proprietario, cioè allo Stato, cioè al ministero, non a chi è stato chiamato a fare i salti mortali per tenere accesi i motori di una portaerei priva di carburante.
Umberto Croppi
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