Di grattacieli, musei e altre storie
Penultima tappa della mega-inchiesta targata Artribune e volta a capire cosa hanno intenzione di fare quegli assessori alla cultura eletti nell’ultima tornata elettorale. A parlare è ora Stefano Boeri, proprio nei giorni di MiArt e in attesa della settimana del Salone. Intervista uscita sullo scorso numero di Artribune Magazine, ma le questioni salienti restano immutate. E per le ultime dichiarazioni di Boeri, occhio alle nostre tribnews direttamente da Milano.
Stefano Boeri è più di un semplice assessore, è un’archistar internazionale e un raffinato urbanista, già direttore di Domus e Abitare. Conosce bene Milano, che lo onora con 13mila preferenze. Giuliano Pisapia lo nomina a capo di Cultura, Expo, Moda e Design. Quando i rapporti tra i due si lacerano, però, Boeri resta senza più l’Expo. La crisi si consuma il 24 novembre, dopo la presentazione alla stampa dei famosi dieci punti per il rilancio della cultura a Milano. Lo abbiamo sentito allora, per capirne le intenzioni.
Ci sarà una rivoluzione culturale a Milano, magari a partire dalla Grande Brera?
Voglio essere chiaro, il mio ruolo è oggettivamente marginale. La progettazione è governata da un sistema di ministeri e dall’Accademia. Però è importante per Milano e mi sono impegnato da subito affinché ci fosse un piano di fattibilità per capire i costi di recupero, i tempi e le procedure.
Oggi Brera non è in grado di rispondere alla domanda che meriterebbe…
È la più grande pinacoteca d’arte sacra al mondo, con più di 1.200 opere. Sarebbe seconda forse solo agli Uffizi in tutta Italia. Può essere un luogo unico al mondo e invece sono trent’anni che siamo lì. L’ho detto: finché non risolveremo Brera questo Paese non farà una svolta vera.
E il Museo del Novecento?
È una grande risorsa e con la direttrice, Marina Pugliese, ci siamo detti che la sfida è quella di un allargamento, anche per fare uscire dai depositi molte opere non visibili.
Cosa spera per la Triennale?
È seconda solo alla Scala. La nostra anima è lì. Davide Rampello ha avuto il merito di superare le polemiche locali, portando relazioni internazionali e interdisciplinarietà. Oggi serve tornare a mostre che mettano l’architettura al centro, perché questa è la città più importate al mondo per l’architettura del secondo dopoguerra.
E l’Ansaldo?
Regala finalmente alla città uno spazio all’altezza dei grandi musei internazionali per la multiculturalità e il contemporaneo. Lo spazio di Chipperfield sarà concluso in primavera e vorremmo continuare il recupero di altre nostre proprietà, come l’edificio di via Tortona.
Che fine fa il MAC di Libeskind?
In campagna elettorale è stato presentato come già realizzato. Ho valutato il progetto con l’assessore all’urbanistica e abbiamo rilevato che, per quanto bello, interessante e ben fatto, ha problemi seri di realizzabilità.
Rischia di essere un doppione dell’Ansaldo?
All’Ansaldo nasce uno spazio espositivo di livello internazionale, per caratteristiche, dimensioni e qualità. Non significa spostare qui il MAC, che deve restare come luogo di approfondimento di CityLife. Qui faremo uno spazio per la contemporaneità multidisciplinare, che avrà dentro le arti ma anche l’antropologia, la fotografia e la ricerca. L’idea del Museo delle Culture, all’origine del progetto, resta e viene anzi valorizzata.
Molti musei… E le gallerie private?
Dobbiamo rilanciare gli eventi privati che fanno cultura con l’arte contemporanea: è una delle mie dieci idee. Le gallerie e il collezionismo hanno tenuto in piedi l’offerta, anche quando le grandi istituzioni non avevano un profilo chiaro.
Per loro ha usato la parola “affittacamere”…
È un concetto meccanico: c’è stata, in questi anni, la necessità di accettare proposte che arrivavano già costruite a partire da un investimento significativo dei privati e che includevano un programma e un curatore, lasciando quindi all’amministrazione un ruolo da affittacamere. Oggi pensiamo a un protagonismo diverso del “pubblico”.
Per questo ha chiamato Francesco Bonami…
Sto cercando di far sì che chi conosco contribuisca a costruire un’immagine diversa di Milano. Lui non è proprio l’ultimo arrivato ed è significativo il fatto che oggi venga qui, investa su Milano, lasciando tutto: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, New York e Chicago. Farà una consulenza a 360 gradi sul contemporaneo. Non onerosa, è importante dirlo.
Come coinvolgere i privati?
Chiediamo loro di adottare gli spazi e i progetti. È diverso dalla sponsorizzazione. Ed è quanto oggi chiede il privato, che riceve centinaia di proposte, a cui spesso partecipa di malavoglia perché si trova dentro con molti soggetti e ottiene un ritorno d’immagine relativo.
Palazzo della Ragione doveva diventare la casa della fotografia…
Abbiamo lo Spazio Forma che è già un luogo per la fotografia, ma potrebbe diventare un hub. Trovo interessante l’idea di un grande festival della fotografia milanese.
Ha scritto Biomilano e costruisce il “bosco verticale” in zona Isola. L’eco-sostenibilità sarà centrale?
È fondamentale e per me l’Expo è il primo traguardo di una transizione che comporta la nuova idea di rigenerazione della città, in cui si smette di costruire sull’agricoltura e sulla natura e si edifica solo dentro confini precisi. Ma comunque si costruisce, buttando giù il vecchio.
Torino ha discusso molto su un paio di grattacieli, qui ne fate diversi con le archistar. È contento?
I grattacieli sono pezzi delle città di tutto il mondo, hanno però una responsabilità maggiore di altri edifici, perché sono pubblici anche se sono privati. Richiedono maggiore consapevolezza. La domanda è: i grattacieli che stanno sorgendo sono consapevoli?
Nicola Davide Angerame
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati