In Plus jamais peur di Moura Ben Sheikh sono evidenziate, nella primavera araba, le presenze di numerosi giovani intellettuali, laureati senza lavoro e con molte e giuste critiche da fare. Lila è una di questi, una cosa sola col suo computer e un blog che è stato uno dei punti di riferimento nella controinformazione di quei giorni, indagata naturalmente dalla polizia politica.
In un progetto di Net Art di Douglas Davis del 1995, World’s first collaborative sentence, si propone di aggiungere all’infinito frasi alla sua frase iniziale. Il progetto è cambiare l’idea di comunicazione (o di letteratura) attraverso il coinvolgimento attivo del pubblico, dove la comunicazione è il centro di una nuova forma sincretica fra letteratura e attivismo, chiacchiera e sfogo narcisistico, creatività e altro ancora. O fra la critica e il fare creativo, come intuisce il mediartista Maurice Benayoun, che “estetizza” il proprio blog The Dump caricando i partecipanti di un ruolo di valutazione sui propri progetti non realizzati. Il blog si presenta come un’agorà telematica in cui tutti hanno voce, ma non tutte le voci sono uguali.
Poniamoci il problema della blogdemocracy. Si tratta di democrazia? È più esatto dire “prove aperte” per una democrazia. Come funziona la redistribuzione delle responsabilità? Come può funzionare il libero scambio, quali sono i filtri che garantiscono la qualità e la generalità dei messaggi? Il blog può essere usato come disturbo e sopraffazione (questo sembra il caso del commentario di Artribune oggi) dove lo spazio non filtrato diventa terreno di presenzialismo, protagonismo, presenza elettoral-politica, gossip, strategia di pushing. E quanto ci vuole per creare un “gruppo di disturbo” e direzionare gli umori di un gruppo più vasto? “Non stiamo solo costruendo un’enciclopedia, stiamo lavorando per rendere le persone più libere”, dice Brandon Harris di Wikimedia Foundation. Ottimistico? Forse.
Nel frattempo la World’s first collaborative sentence di Douglas Davis è diventata un milione di cose diverse: attivismo, romanzo corale, letteratura e politica parallela, costruzione di cultura e di culture, e anche container di trash e bla-bla di ogni tipo, benché difesa dalla propria collocazione negli spazi, finora sacri, del Grande Museo di Arte Moderna. Già nel 2000, a cinque anni dall’inizio del sito, i contributi erano (dice il Whitney Museum, che lo ospita) 200mila.
Lorenzo Taiuti
docente di mass media all’accademia di brera
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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