Giornalismo a fumetti o storie divertenti? Parla Guy Delisle
Un'immagine racconta più di tante parole. Ne è consapevole Guy Delisle. Un canadese che vive a Parigi, gira il mondo e racconta le sue storie illustrando pagine degne di essere lette (e osservate). Fa dell'illustrazione il suo medium, ma rifiuta la definizione di “graphic journalist”. Anche se le sue “Cronache di Gerusalemme” gli sono valse un premio ad Angoulême.
Sono passati due mesi dalla lezione per immagini sulla storia del fumetto tenuta da Art Spiegelman al Circolo dei Lettori di Torino. Allora per assistere alla performance del padre di Maus c’era una coda di decine e decine di metri. Con gente rimasta in attesa per più di due ore, quasi si trattasse di un concerto. Non c’è prova più saliente della salute e della popolarità della graphic novel. E allora, pochi giorni fa, il Circolo ha ben pensato di bissare l’evento attirando a sé un altro nome di spicco del panorama fumettistico internazionale: il canadese Guy Delisle (Quebec City, 1966) che, proprio per mano di Spiegelman, ha recentemente ricevuto il premio Angoulême 2012 per il suo ultimo lavoro, Cronache di Gerusalemme, pubblicato in Italia da Rizzoli Lizard.
Allora la graphic novel esiste, ora più di prima?
Vent’anni fa, quando ho cominciato a disegnare, questa forma espressiva non era certamente accettata quanto lo è adesso. Non è che i fumetti non fossero popolari, ma erano ancora fatti e recepiti come qualcosa di infantile o adolescenziale. È successo, però, che molte persone della mia età amassero i fumetti e cercassero letture più mature. E allora personaggi del calibro di David B. e Lewis Trondheim hanno cominciato a fare fumetti, mentre altri davano vita a un’importante rivista chiamata Lapin.
Il tuo esordio fu ben accolto?
La mia prima graphic novel non venne letta da molte persone e rimase a lungo un lavoro di nicchia. Era considerata underground, invece ora è più che mainstream. È molto popolare, e questo è dovuto al formato stesso del fumetto, che è “rilassato”. Si possono imparare delle cose e, in più, c’è il mix di parole e disegno, molto efficace nello spiegare velocemente le stesse cose che un romanzo impiegherebbe pagine e pagine a descrivere, finendo per annoiare il lettore. Se, ad esempio, si prende il mio libro su Gerusalemme, in due pagine e mezzo spiego cos’è e com’è fatto il Monte del Tempio, che è il centro del conflitto. Sono due pagine che si leggono senza problemi, ma se lo stesso argomento viene trattato in una rivista, bisogna davvero essere entusiasti dell’argomento per leggerlo. Ecco perché i fumetti sono più “rilassati”, ma leggendoli si riesce comunque a ottenere informazioni in maniera efficace.
Spiegalman detesta che Maus venga definito “graphic novel”. Tu cosa pensi del “graphic journalism”?
Non mi ritengo un giornalista. Ciò che mi interessa principalmente è dar vita a storie divertenti. Sono un narratore di racconti divertenti a cui capita di trovarsi in posti molto seri e mi tocca spiegare situazioni altrettanto serie. Non che la cosa mi dispiaccia, perché trovarmi in un luogo come Gerusalemme, senza che in realtà conoscessi un granché di quel accadeva prima di arrivarci, mi ha aiutato a capire molte cose, come il funzionamento delle colonie. L’ho trovato molto interessante e ho voluto metterlo nel libro. Ma, in generale, mi piace andare in giro, prendere nota delle cose strane che succedono e parlarne nei libri. I fumetti possono essere audaci e andare in qualsiasi direzione. Io non voglio focalizzarmi sull’unico aspetto di ciò che mi capita di vedere come osservatore. C’è certamente anche questo lato giornalistico, ma non è il solo e neanche il principale. Per esempio, parlo molto più spesso di me e dei miei figli. In realtà, ciò che faccio è una specie di grande cartolina (l’ultima era lunga trecento pagine). Non è altro che un insieme delle cose che mi hanno colpito del luogo in cui mi capita di trovarmi e della mia vita familiare.
È la seconda volta che usi il termine “cronaca” in un titolo. Hai trovato delle differenze nel lavorare a queste nuove cronache rispetto a quelle precedenti dedicate alla Birmania?
Si tratta dello stesso formato e sono entrambi differenti dai due primi libri su Shenzhen e Pyongyang. Riguardano un anno di vita in cui ho seguito mia moglie, che al tempo lavorava per Medici Senza Frontiere. Mentre io mi occupavo dei bambini. In questo senso, è stata un’esperienza simile. E visto che si trattava di un anno, non ho potuto fare come per i primi due. Sono stato due mesi in Corea del Nord e ho raccontato la mia esperienza dall’inizio alla fine, come se fosse un’unica grande storia, mentre in questo caso ho deciso di usare la forma della “cronaca” per saltare da un tema all’altro e poi, in certi casi, tornare su alcuni di quelli già trattati. Quindi è stato naturale intitolarlo Cronache, dato che è una specie di seguito di quelle birmane.
Qual è stata la tua reazione quando hai saputo che Aung San Suu Kyi era stata eletta al parlamento birmano? Quando vivevi in Birmania hai mai pensato che una cosa del genere fosse anche solo lontanamente possibile?
Veramente no, perché quando noi eravamo là, nel 2005, non era possibile neanche avvicinarsi alla casa di Aung San Suu Kyi. Dopodiché, nel 2006-2007, ci fu la rivolta dei monaci, che non funzionò per nulla. Tutto sembrava essere bloccato così com’era, senza alcuna possibilità di cambiamento. Sorprendentemente, il cambiamento c’è stato. Tutto si è evoluto. Mi ricordo che, nel 2010, ci fu un tizio americano che nuotò nel lago davanti a casa di Aung San Suu Kyi e lei venne ingiustamente accusata di dargli delle informazioni, come se si fosse trattato di una spia dell’Occidente. Nessuno poteva pensare che solo due anni dopo le cose sarebbero cambiate fino a questo punto. Tutti erano scettici – e lo ero anche io – riguardo al fatto che l’avrebbero liberata e le avrebbero fatto fare ciò che desiderava da così tanto tempo. Dobbiamo comunque continuare a essere molto cauti e tenere d’occhio la situazione. Si tratta senza dubbio di un’ottima notizia.
Pensi che il cambiamento sia solo in superficie o è qualcosa di più profondo?
Difficile dirlo, soprattutto adesso che seguo le notizie a distanza, come tutti quanti. È un processo di cambiamento lento. Sembra che Than Shwe, il “generalissimo” che è tuttora al potere, si sia finalmente arreso e abbia delegato il potere politico al suo braccio destro. Per ora, Aung San Suu Kyi non sta dirigendo il Paese, ma potrebbe diventarne il nuovo Presidente. Come ho già detto, si tratta di un processo lungo e lento. È un primo ma passo, ma è legittimo essere entusiasti.
In Cronache di Gerusalemme dici che i media israeliani criticano più duramente il proprio governo di quanto non facciano quelli occidentali…
Baso la mia esperienza sui media francesi. Perché, vivendo a Parigi, sono quelli che seguo maggiormente. Noto che sono tutti molto cauti nel criticare la politica di Israele. Sono rimasto sorpreso quando sono arrivato a Gerusalemme. Sentivo che il governo e i media si scambiavano accuse molto pesanti. Ho pensato che fosse interessante, ma in realtà è abbastanza naturale. Sono tra di loro, non ricevono particolari critiche dall’estero. Mi ricordo che, quando Olmert era Primo Ministro, una volta disse, dopo che delle famiglie palestinesi erano state scacciate per fare spazio ai coloni, che erano stati fatti dei “pogrom” nei confronti degli arabi. Fu molto duro per me che, da lettore europeo, pensavo a certi termini come appartenenti a un tragico passato. Le critiche non mancano praticamente mai, nei giornali israeliani. È una democrazia. Poi c’è anche la tradizione di commentare la Torah e i commenti, e i commenti dei commenti. Amano discutere e si vede bene nei giornali. Non c’è censura, e i media dicono quello che vogliono.
Qual è la reazione dei cittadini a queste critiche?
Difficile dirlo. Per quanto trovassi le critiche sorprendenti, non ho mai avuto modo di commentarle con degli israeliani. All’inizio della mia permanenza a Gerusalemme, quando Olmert parlò dei pogrom, non frequentavo ancora nessun israeliano. C’è voluto molto tempo prima che accadesse. Non è facile stringere rapporti con loro…
A volte capita di trovare delle grapich novel in cui i disegni sono del tutto secondari rispetto alla storia. Qual è il tuo approccio? Viene prima il disegno o la parola?
In realtà è un mix delle due cose. Spesso rileggo le note che ho preso durante i viaggi e mi dico: “Ok, dovrei parlare di questo, perché è interessante, divertente, o semplicemente strano”. Solitamente scrivo la mattina e disegno al pomeriggio, ma capita spesso che mi ritrovi a metà di una frase e mi accorga che sarebbe molto più veloce disegnare lo stesso concetto. Allora faccio uno sketch. Finisco per ritrovarmi la mattina con sei o sette frasi sparse su una pagina e una serie di sketch, che poi riordino nel pomeriggio. Nella mia testa c’è veramente un mix di disegno e testo. Ci sono certe cose che richiederebbero troppe parole per essere spiegate e allora le disegno, perché il disegno è certamente più efficace. Ad esempio, se voglio rendere un check point – di cui si sono già lette un sacco di cose, e ti assicuro che passare attraverso un check point è un’esperienza agghiacciante – usando le parole rischio di non dire nulla di significativo, ma se per una o due pagine faccio solo vedere un personaggio che vive quell’esperienza, la resa è molto migliore.
In questo momento stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Non esattamente. Ci sono dei progetti che mi piacerebbe cominciare, delle idee che mi venivano in mente mentre lavoravo al libro su Gerusalemme. Un giorno riaprirò il cassetto in cui le ho messe per vedere quale valga la pena di essere ripresa. Adesso sto realizzando alcune short stories che pubblico sul mio blog. Potrei farne qualcosa di più grande, non saprei. Pensavo di farne solo un paio, ma ogni volta mi vengono in mente delle cose nuove e ne disegno un’altra e un’altra ancora. Mi divertono molto e non ho voglia di mettermi a lavorare a un altro libro voluminoso. Almeno per ora.
Andrea Rodi
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