La mostra temporanea, almeno fino agli anni ‘80 del XX secolo [1], è percepita come un saggio visivo, una palestra (per critici e artisti) o un paesaggio effimero che si forma. E nel formarsi costruisce un sentiero metodologico, critico e teorico [2], che evidenzia il dibattito nato sotto il segno della fine dei grandi racconti [3] e mira a fare il punto sui mutamenti, i cambi di rotta, i criteri allestitivi che hanno condizionato, da Aperto ’80 a oggi, il mondo dell’arte e della critica.
Ora, al di là dei grandi problemi che causano le mostre di successo, dove quello che conta sono i visitatori o la rassegna stampa di turno, vale la pena evidenziare l’esistenza di un corpus allestitivo intelligente e cosciente che mira ancora a costruire un vivace discorso teorico [4].
La mostra come costruzione di un’idea, come apertura preferenziale di dibattiti sui problemi più scottanti della contemporaneità o come organizzazione di un pensiero che dalla teoria muove verso l’arte per generare formule di ulteriore riflessione, non è spirata con i grandi racconti. Ha saputo reinventarsi, piuttosto, per leggere i territori di un presente quanto mai ambiguo, pernicioso e pericoloso.
Difatti alcune mostre, tra gli anni ‘90 del Novecento e il primo decennio del XXI secolo, hanno caratterizzato la nuova scena della critica d’arte e dell’estetica interrogandosi su un sistema sfrangiato dalla megalopoli e dai meccanismi relazionali, dalle correnti dominanti dell’economia e dalla flessibility del lavoro, dai flussi di un paesaggio ibrido, carico di differenze e, nel contempo, paradossalmente omologante.
All’interno di questo paesaggio, la storia recente delle mostre temporanee d’arte contemporanea si presenta non solo coinvolta in un calderone di eventi nati per deliziare un pubblico medializzato, ma anche, a me pare, aperta a costruire laboratori utili a leggere il mondo della vita. Si tratta di “mostre pilota” [5] la cui forza riflessiva salta il fosso della mostromania dilagante e del mostrificio imperante, per aprire nuovi dibattiti critici, teorici, filosofici, socio-antropologici.
Da Magiciens de la Terre (1989) a Post-Human (1992-93), che evidenziano le problematiche del multiculturalismo e del modello organico, dalle manovre sull’arte e l’abitare [6] messe in campo, a Piazza Plebiscito, con La montagna di sale di Mimmo Paladino a Identità e Alterità (1995). Per giungere, poi, a Sensation (1997-99) e L’Art Biotech (2003), che interrogano le “metafore biologiche” (J. Hauser) e i profondi cambiamenti di un’arte che non si rappresenta ma si presenta per modulare un approccio creativo teso a ritessere le trame del Dna. A Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore (2003) e Punti Cardinali dell’Arte (2003). O alle più recenti Eurasia. Dissolvenze geografiche dell’arte (2008), 11 Settembre (2009) e Exhibition/Exhibition (2010-11). Le stanze della critica e della teoria hanno ragionato sugli scenari che, dagli anni ‘90 del Novecento, si estendono e si reinventano nel primo decennio del XXI secolo per trovare ulteriori strade, nuove vie di pensiero e costruzione teorica [7]. Contrade di pensiero, queste, che dai territori dell’arte si sono riversate in quelli della critica e della teoria, ponendo le basi riflessive non solo per il mondo dell’arte, ma anche per quello dell’intera umanità.
[1] Per una puntuale panoramica sulla storia delle mostre si veda almeno F. Pirani, Che cos’è una mostra d’arte, Carocci, Roma 2010.
[2] Cfr. F. Ferrari, Lo spazio critico, luca sossella editore, Roma 2004.
[3] Cfr. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Les Editions de Minuit, Paris 1979.
[4] Cfr. J.-C., Ammann, L’esposizione come strumento critico, in E. Mucci e P. L. Tazzi (a cura di), Teoria e pratica della critica d’arte, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 165-180.
[5] A. Vettese, Ma questo è un quadro, Carocci, Roma 2005, p. 33.
[6] Cfr. A. Trimarco, L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001.
[7] Cfr. S. Zuliani, Effetto museo, Bruno Mondadori, Milano 2009.
Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribine Magazine #3
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