Alain de Botton è un personaggio poliedrico e agile nel mondo della cultura d’oggi. Svizzero, quarantatreenne, vive a Londra e scrive in inglese, venendo poi tradotto in molte lingue, anche in italiano, naturalmente. Filosofo della vita quotidiana, scrittore colto, autore e conduttore televisivo, è abile nel maneggiare ironia e astuzia. Nel 2006 ha pubblicato il saggio Architecture of Happiness – edito in Italia con il titolo Architettura e felicità – da cui l’emittente televisiva britannica Channel 4 ha tratto un programma intitolato The perfect Home. In precedenza altri suoi scritti hanno avuto trasposizioni televisive di successo, come il saggio The Consolations of Philosophy, divenuto per la tv Philosophy: A Guide to Happiness. Si noti l’uso ricorrente della parola Happiness, “felicità”: stato di grazia di spirito e corpo. È questa la parola chiave che principalmente muove i suoi interessi intellettuali.
L’edonismo nel pensiero di Alain de Botton vuol sempre significare un prender cura di se stessi, ribaltando situazioni di tedio, d’insoddisfazione, di sofferenza. Le sue indagini filosofiche, che siano a sfondo sociologico, letterario o etico, hanno un che di pedagogico, tendono ad educare l’individuo a conciliare circostanze e stati di fatto con la propria vita interiore.
Consapevole del malessere che colpisce il singolo e la società in epoca moderna, ultimamente de Botton si è spinto ad occuparsi anche di religione, o meglio, di una religiosità al contrario, avendo scritto una guida alla felicità per i non credenti intitolata Religion for Atheists. In questo libro sostiene che è possibile rimanere atei convinti, pur adattando alla vita alcune consuetudini religiose. La prassi liturgica cristiana, per esempio, sollecita interazioni tra individui sconosciuti, quindi aiuta a coltivare spirito di solidarietà e di gruppo. Non sorprende se più recentemente le sue riflessioni hanno preso in esame anche la funzione dell’arte nel nostro tempo, ponendo una questione di fondo: i musei d’arte sono le nuove chiese? Il che, detto da un opinion maker come lui, può lasciare sgomenti ma non indifferenti.
Tant’è che la rivista tedesca Philosophie Magazin, edita a Berlino, accoglie un suo articolo e a stretto giro di posta recapita le sue tesi alla critica d’arte e curatrice italo-americana Carolyn Christov-Bakargiev. Una chiamata in causa non infondata, vista la centralità del suo attuale ruolo di direttrice dell’imminente tredicesima edizione della documenta nel Museum Fridericianum di Kassel, in Germania, indubbiamente tra le più prestigiose manifestazioni artistiche mondiali.
Con un botta e risposta editoriale, il numero corrente (marzo/aprile) della rivista berlinese entra così in gioco ponendo la questione. Pubblica – come si è detto – un articolo di Alain de Botton in cui il filosofo argomenta intorno alla domanda per lui fondamentale, ovvero: i musei d’arte sono le nuove chiese? Prendendo per valida tale ipotesi, de Botton dice apertamente che i musei, questi nostri nuovi luoghi di culto in un mondo ormai laicizzato, dovrebbero sfruttare il loro potenziale in forma edificante dedicandosi ai nostri bisogni interiori con l’intento di aiutarci a vivere. Uscendo da un museo oggi ci chiediamo: quello che ho visto cosa significa? Al contrario, il Cristianesimo non ci lascia mai dei dubbi sul senso dell’arte, in quanto essa si fa strumento per insegnarci a vivere, cosa amare, etc. Pertanto, i musei dovrebbero spiegarci con chiarezza quale sia il senso dell’arte, smettendo così di “celebrare” la sua ambiguità, quindi divenire essi stessi luoghi di consolazione e di redenzione.
Scabroso? Eretico? Utopico? Sollecitata da un’intervistata di Wolfram Eilenberger, caporedattore in persona della rivista berlinese, ecco Carolyn Christov-Bakargiev ribattere colpo su colpo. Accenna a teorie e nomi storici dell’arte, dell’estetica e della filosofia dell’arte, per sancire che tutto questo è semplicemente anacronistico. E non solo. L’idea di un’arte istituzionalizzata in analogia con un’istituzione come la chiesa è un concetto usurato, sostenuto per tutto il secolo scorso. Forse ora c’è nostalgia per certe argomentazioni? Rispetto all’arte in quanto tale, nessuno e tantomeno uno spazio istituzionale è in possesso del “perché”. Presupposto inquietante e pericoloso pensare che l’arte debba aderire a qualcosa. E dire che l’arte debba tornare a essere utile non è un’idea nuova, era tipica dell’avanguardia del primo Novecento che si opponeva all’autonomia dell’opera, avendo di mira la fusione tra arte e vita. Insomma, non ha dubbi Christov-Bakargiev: “Fondamentalmente sono per l’ambiguità”, perché un’opera d’arte in realtà contiene più significati, più livelli interpretativi, talvolta in reciproca opposizione. Peggio ancora se l’arte dovesse assumere su di sé l’iniziativa del soccorso personale: in questo caso, ribatte lei seccamente, “degenererebbe in psicoterapia!”
Franco Veremondi
Kassel // dal 9 giugno al 16 settembre 2012
dOCUMENTA (13)
a cura di Carolyn Christov-Bakargiev
MUSEUM FRIDERICIANUM
+49 (0)561 7072770
[email protected]
d13.documenta.de
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