Nostalgia canaglia
Quando l’analisi del mercato non è soltanto numeri e quotazioni e percentuali. Perché quei numeri e quei grafici nascono e crescono e decrescono anche come conseguenza di riflessioni più ampie, storiche e tendenziali. Ad esempio, si potrebbe parlare di postmoderno…
Dicono che il postmoderno sia finito e, si potrebbe dire, finalmente. Ci sarebbe anche un atto ufficiale, una mostra al Victoria and Albert Museum di Londra (e ora al Mart di Rovereto) dal titolo Postmodernism. Style and Subversion 1970-1990, annunciata come “prima retrospettiva complessiva del fenomeno”.
Ironia della sorte, la (pseudo)ideologia, il (non)movimento che si è rivoltato contro la storia si ritrova oggi a fare i conti con il suo inizio e la sua fine, intrappolato nella più rigida gabbia cronologica, passando dall’iniziale negazione modernista al trionfo post-punk fino alla trappola dell’economia, quando il mercato ha digerito quella sensibilità e l’ha rigurgitata, dandola in pasto al consumismo.
L’allontanamento dalla realtà doveva innescare un processo di emancipazione e di libertà del pensiero, invece con la diffusione del populismo e dell’imperialismo mediatico il sogno è fallito. E oggi cresce il desiderio di verità che diventa persino atto sovversivo, di resistenza, caricandosi, secondo Maurizio Ferraris, di un carattere di inemendabilità.
Il dibattito sulla realtà ha tenuto banco su riviste specializzate e quotidiani per tutta l’estate, protagonisti Gianni Vattimo e il suo allievo, Maurizio Ferraris appunto, il primo a sostenere il tramonto definitivo della verità nella cultura contemporanea (Addio alla verità è il titolo del suo contributo del 2009 sull’argomento), il secondo schierato a difendere le istanze del New Realism, titolo di un manifesto pubblicato su La Repubblica dell’8 agosto e di un convegno previsto nella primavera del 2012 a Bonn, che lo vedrà coinvolto insieme a Markus Gabriel, Peter Bojanic, Paul Boghossian, Umberto Eco e John Searle.
Dentro o fuori, si perpetua l’epoca dell’irrealtà o siamo giunti alla svolta realista? Nella mostra al V&A questo clima di sospensione, di inquietudine e ambiguità estatica è sintetizzato nell’iconica serie di Robert Longo Men in the Cities. Che sta facendo quella gente? Un gesto inconsulto, uno slancio d’impulso, è l’inizio della festa o la fine del dramma?
Da trent’anni almeno, tanti quanti ne portano sulle spalle le opere di Longo, stancamente si trascina la diatriba tra reale e irreale, nelle più varie declinazioni… e inclinazioni. Il movimento oscillatorio tra vero e falso si ripropone anche nella dialettica tra passato e presente.
A veder bene, la nostalgia è un sentimento strutturale da oltre mezzo secolo. “Le generazioni nate dagli anni ‘60 in poi”, scrive Emiliano Morreale ne L’invenzione della nostalgia, “hanno cominciato a sperimentare su di sé forme di auto-percezione e auto-definizione nuove: non più politiche, geografiche, sociali; ma appunto anzitutto generazionali, trasversali, costruite sulle proprie memorie di consumatori di merci e di spettatori, secondo un ciclo ‘a ondate’ che si ripete”. Non di nostalgia privata si tratta, dunque, ma di nostalgia collettiva, che si alimenta della memoria normalizzata nell’esperienza seminale dei mass media.
Commentando l’ultima Biennale di Venezia, il corrispondente americano del Toronto Star, Peter Goddard, sottolineava come la curatrice Bice Curiger abbia assunto la cultura pop, anzi la cultura popolare degli Anni Sessanta e Settanta con le sue dinamiche sociali e di condizionamento collettivo, come punto di partenza. “A crisis lurks here”, scrive Goddard, “Contemporary nostalgia for pop’s original temporality can only be a drag on any real avant-garde”.
Nel tempo della crisi economica sotto i riflettori, si alimenta nella faccia nascosta della Luna la crisi ben più articolata e profonda di una società schermata, imprigionata in una sorta di spessa scorza autoreferenziale, che ha sviluppato raffinate tecniche di riconversione di modelli culturali acquisiti, incapace di proporre rivoluzioni.
Come solennemente sentenziava il reverendo Jorge ne Il nome della Rosa, “non c’è progresso nella storia della conoscenza, ma una mera, costante e sublime ricapitolazione!”; ma, d’altro canto, l’appropriazionismo e la riprogrammazione della memoria storicizzata sono stati ben indagati da Nicolas Bourriaud (Postproduction) come da Hal Forster (Il ritorno del reale).
L’eredità dell’epoca pop si rintraccia oggi nella ridondante riproposizione dei modelli avanguardisti, nel perpetuarsi feticista “sotto mentite spoglie” di istanze svuotate di senso, ma anche nella prevaricazione del simulacro sul dato reale che, non a caso, torna al centro del dibattito.
Ripensando all’analisi della Vita Activa (1958) di Hannah Arendt, i movimenti “dal basso” che stanno connotando i nostri tempi (dalla primavera mediterranea agli indignados fino ai movimenti americani innescati da Occupy Wall Street, inserito dal critico Charlie Finch tra i principali eventi artistici del 2011) sembrano affermare con sempre maggior forza la volontà di riappropriazione della realtà a fronte di una società, di un’economia e di una politica percepiti come entità astratte, lontane dalla quotidianità.
Già all’inizio del nuovo secolo, con il titolo Produciendo realidad, era stato pubblicato uno studio dedicato alle cosiddette “empresas comunitarias”, organizzazioni autogestite di lavoratori che conducevano recuperi di imprese cadute in fallimento durante la crisi argentina. Il titolo fu ripreso anche in Italia nel 2004 dal curatore Marco Scotini, nell’ambito di un progetto dedicato all’arte e alla resistenza latino-americana per l’allora Associazione Prometeo di Lucca e che dava conto della nascita spontanea di dinamiche microeconomiche alternative a fronte del collasso del modello neoliberista.
Dagli esiti di quelle esperienze vien da pensare che la verità sulla quale si è riacceso l’interesse sia condizione non tanto da riscoprire o recuperare ma piuttosto da definire e creare, da produrre appunto sulle fondamenta del presente e sulle macerie del passato, archiviando definitivamente quell’atteggiamento nostalgico che appare ormai insostenibile.
Alfredo Sigolo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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