C’era una volta l’utopia di un capitale illimitato del linguaggio, specchio della proliferazione vertiginosa dell’economia virtuale, della quale stiamo subendo il crack in tempo reale. Ripetere le stesse formule di fronte alla proliferazione esponenziale di opere è indice di una sterilità dei concetti. D’altra parte, si potrebbe obiettare che anche le opere non fanno altro che citarsi l’un l’altra. Ciascuna è lo specchio dell’altra. Remake, revival, ossessiva ripetizione di formule e di forme a cui il linguaggio risponde con altrettanta ossessiva ripetizione delle sue formule concettuali. Rifrazione ondulatoria di tutte le forme nella superficie liquida del reale, di cui si tenta in tutti i modi di possedere l’immagine.
Di fronte a questo stato di cose, anche le definizioni sono un simulacro del linguaggio. Le parole rivolte all’arte rivelano l’arbitrarietà dei criteri con cui si approccia ad essa. Esiste un criterio oggettivo e universalmente valido per valutare l’arte d’oggi? No. Allora bisogna pur dire che anche il criterio è una finzione del pensiero, non una realtà. Una finzione spesso necessaria: scelgo un vino al posto di un altro. Ma dire che non esistono criteri oggettivi significa pure dire che l’arte oggi è un gran bazar, un suk, un supermercato, dove si sceglie una cosa al posto di un’altra.
Nell’accezione comune, un criterio è ciò che consente di fare distinzioni tra cose, persone e nozioni. Il criterio è dunque ciò che rende possibile in qualsiasi momento un giudizio di gusto, che è anche implicitamente un giudizio d’esclusione. Un’opera può essere buona per un museo ma non per la vendita. Può andar bene per una casa privata ma non per uno spazio pubblico ecc. Eppure, spesso la confusione è dietro l’angolo. Non è raro vedere opere esposte in spazi pubblici (“ambientate”) che forse dovrebbero stare altrove o non esistere affatto.
Quanta dose di individualismo (e affarismo) deve sopportare lo spazio pubblico quando è invaso da “opere” che non hanno alcuna ragione per stare dove sono? Questa sfasatura tra ambiente e opera genera una forma di dogmatismo insito nello sfrenato pragmatismo che segna l’arte d’oggi.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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