Transavanguardia, ieri
Mentre il dibattito si concentra sulla possibile fine del Postmoderno, continua la lunga scia di interesse attorno agli Anni Ottanta. Quel decennio in Italia fa rima con Transavanguardia, il movimento che ha riportato trionfalmente la pittura al centro della scena. Ne parliamo con il “padre critico” Achille Bonito Oliva, che ha appena chiuso il ciclo delle cinque mostre che sono tornate sui passi dei “fabulous five”.
Partiamo, come è d’uopo, dall’inizio…
Dopo aver scritto, nel 1969, Il Territorio Magico, che era già una lettura antropologica, multimediale e interdisciplinare di quegli anni – spaziava infatti dalla musica al teatro, alla politica, al teatro, al cinema ecc. – avevo curato, nel 1973, Contemporanea, nel parcheggio di Villa Borghese appena costruito dal grande architetto Moretti. E anche quella mostra prendeva in considerazione tutti i linguaggi, facendo il punto della situazione sull’arte che dalla seconda metà degli Anni Sessanta era scesa dalla parete, aveva abbandonato la cornice, aveva occupato anche spazi alternativi e in qualche modo era passata dall’oggetto all’evento, introducendo l’elemento performativo, vitale, che coinvolgeva nell’interattività lo spettatore. Le forme si moltiplicavano e c’era una grande attenzione e sintonia con il discorso politico, perché le avanguardie si sentivano garantite dall’appartenenza a una sinistra progressista.
C’era con la politica un problema di rapporti di forze…
Esatto. Contemporaneamente notavo, però, come l’artista fosse diventato l’angelo custode del ciclostile, sottomesso alla parola forte del politico: l’arte, una domanda sul mondo, si sottometteva al primato della politica, che pensava di essere una risposta ai problemi del mondo. E quindi si affermava un’eteronomia dell’arte. A quel punto, anche grazie ai miei studi sul Manierismo, con i quali avevo vinto il concorso per diventare ordinario di Storia dell’arte medievale e moderna, capii che era giunto il momento di affermare l’autonomia dell’arte, anche utilizzando questo modello.
Come sei giunto a individuare i cinque artisti che hanno poi costituito il movimento?
Cominciai con il realizzare una mostra nel 1976 sul disegno (si chiamava Disegno/ Trasparenza) alla Galleria Cannaviello che all’epoca aveva sede a Roma, alla quale invitai per la prima volta Francesco Clemente, Sandro Chia e tanti americani che vedevano nel disegno non tanto una preparazione all’opera, come nella pratica minimalista, ma un tratto e un linguaggio autonomi, in cui si poteva recuperare il piacere della manualità. Così cominciai a indagare e a scoprire artisti come Enzo Cucchi, che veniva dalla Marche, Chia da Firenze, con il quale avevo già un rapporto, Clemente e Mimmo Paladino da Napoli.
Chi è stato il primo con il quale hai cominciato a instaurare uno scambio?
Direi Paladino. Nel 1968 ho presentato a Napoli la sua prima mostra personale alla Galleria la Carolina di Portici, poi ho conosciuto Clemente a Capri nel 1971 insieme a Lucio Amelio, Chia sempre nel ‘68 a Firenze e poi Nicola De Maria nei primi Anni Settanta. Tutti loro venivano da un’esperienza post-concettuale attraverso la fotografia: possiamo dire che la loro fosse una Narrative Art. Ma nacque questo dialogo e mentre io condizionai il loro passaggio alla pittura, da parte loro ci fu un’influenza sulle mie teorie attraverso la produzione artistica. Possiamo dire che ci fu un vero e proprio scambio tra compagni di strada. Quindi ci fu nel ‘78 la prima mostra da Emilio Mazzoli a Modena e poi Opere fatte ad arte, ad Acireale, la prima esposizione che comprendeva tutti e cinque gli artisti supportata dalla teoria pubblicata su Flash Art nel 1979; quindi, nel 1980, la mostra Aperto80 con Harald Szeemann, che fu il sigillo in una visione internazionale, ma rappresentò anche il riconoscimento di un linguaggio che era diffuso non solo in America e in Europa.
Quando si guarda a questo passaggio dagli Anni Settanta agli Anni Ottanta, dal concettuale alla pittura, si afferma sempre la grande importanza del mercato. Che ruolo ha avuto nella nascita e nell’affermazione della Transavanguardia?
La Transavanguardia ha avuto immediatamente un successo straordinario, si è trattato di un vero e proprio boom, da lì cominciò la moda degli artisti giovani in gruppo, però io sono partito da Modena, da un piccolo centro dunque, così come la Ferrari è nata a Maranello. Quindi è l’estro storico e la produzione di questi artisti, che aveva una sua qualità, a determinare il riconoscimento da parte dei collezionisti europei e dei musei, anche americani. Fu un linguaggio che riuscì a superare quella sorta di interdizione per l’arte italiana ed europea: i movimenti precedenti, come l’Arte Povera, venivano accettati perché visti in una sorta di ascendenza statunitense, mentre la Transavanguardia, frutto di una memoria storica, aveva un’originalità che, pure nella loro mentalità puritana e protestante, i galleristi, i direttori di musei, i critici nordamericani dovettero riconoscere.
Il successo ti stupì?
No, perché nel 1972 avevo già teorizzato il sistema dell’arte come una catena di sant’Antonio in cui ci sono soggetti produttori di un’autonomia professionale e tutti insieme realizzano un risultato. D’altra parte, adesso si parla tanto del successo dell’Arte Povera, ma io non credo dipenda solo dal mercato: allora però colpì molto perché si passava dall’anoressia, dalla smaterializzazione dell’arte, al piacere della pittura e a quello della contemplazione, al recupero della soggettività sia dell’artista che del collezionista e del pubblico.
Parli di postmodernità, ma in questo periodo non facciamo altro che sentir parlare di fine della postmodernità e di un’epoca più legata al reale, al fare…
Sì, alcuni filosofi vogliono utilizzare gli indignados per trasformare il pensiero debole in pensiero forte, ma questa è un’ingenuità: gli indignados protestano per avere un futuro, ma vengono visti come portatori di una nuova ideologia. C’è, perciò, un tentativo di giungere attraverso di loro alla fine del postmodernismo. Ma la crisi economica, dell’ideologia e la globalizzazione dei problemi ci sono oggi come allora, anzi la radicalizzazione dello scontro tra Paesi poveri e Paesi ricchi ora è aggravata da un fondamentalismo religioso che rischia di generare una guerra di civiltà. Dunque, viviamo ancora in un’era di postmodernità, in cui non c’è lo spiraglio di un futuro.
E la Transavanguardia, in tutto ciò?
Lo dice anche il nome, che indica un movimento di transizione, un’arte che parte ma non ha ancora un’idea dell’approdo. Mentre prima, con le neoavanguardie, c’era, per ideologia, un risultato da raggiungere, ora, con il transito, svanisce la garanzia del risultato. Si tratta, quindi, di un atteggiamento eroico, vitale, di spostamento e di conquista perenni del presente. D’altra parte, questa mancanza di garanzia del futuro è quello che ha portato gli artisti della Transavanguardia a utilizzare il passato per poter vivere l’oggi. Non è dunque un atteggiamento regressivo e nostalgico. È al contrario del Manierismo storico, che aveva nostalgia per l’apogeo irraggiungibile rappresentato dal Rinascimento… Da qui l’ipocondria del Pontormo e il suicidio del Bronzino. Questi artisti utilizzano, invece, l’ironia, quello che Goethe definiva la passione che si libera nel distacco, l’oscillazione, non l’identificazione.
Elena Del Drago
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati