Transavanguardia, oggi
Le cinque mostre e il progetto teorico “Costellazione Transavanguardia” non vogliono essere solo una finestra aperta sul passato, ma anche un’opportunità per guardare al mondo, artistico e non, di oggi. Un presente che abbiamo analizzato insieme ad Achille Bonito Oliva. Con qualche fuga verso Oriente, una tirata d’orecchie ai giovani critici e qualche nome.
Trentadue anni e non sentirli. Come vive Achille Bonito Oliva la Transavanguardia oggi? Come un pezzo di storia o una narrazione ancora in svolgimento?
Sul piano dell’astrazione, siamo senz’altro parte di una narrazione ancora in corso. Credo che la bolla finanziaria, la crisi economica, i conflitti ci confermino che viviamo in un’epoca che non può essere affrontata semplicemente con il bagaglio teorico e ideologico che preesisteva alla postmodernità. Con queste premesse, trovo che il mio pensiero, ciò che definisco Transavanguardia, sia ancora attuale. Stiamo, infatti, ancora vivendo in un momento in cui riciclaggio, contaminazione, riconversione, destrutturazione, eclettismo, nomadismo sono atteggiamenti e posizioni condivisi e praticati.
Per quanto riguarda l’iconografia degli artisti del gruppo, vedo una grande, importante evoluzione. Prendiamo, ad esempio, Francesco Clemente, che è passato a un linguaggio in cui la rappresentazione dell’io si carica di ferite, cicatrici e incubi. O Enzo Cucchi, che riesce a far pittura disegnando, quindi radicalizzando. E anche gli altri componenti del gruppo continuano il loro percorso, con il loro apparato espressivo che a mio avviso riesce ancora a cogliere lo Zeitgeist.
Si dice spesso che la Transavanguardia equivale ad ABO: allora tu fai seguire alla grande mostra complessiva di Palazzo Reale, una serie di appuntamenti monografici. È un modo di trasferire l’attenzione interamente sul tema, o un tuo personale atto di amore per questi artisti?
È un atto di rispetto. Quando parlo della Transavanguardia dico sempre che siamo cinque più uno. Ritengo che l’arte contemporanea sia il frutto di una divisione del lavoro intellettuale, perciò con i componenti del gruppo mantengo un rapporto complementare. L’artista eclettico riflette, quindi è giusto che ci siano scene occupate interamente da ognuno di loro, singolarmente, perché la Transavanguardia è una famiglia di artisti che non sono parenti tra loro.
Non solo mostre, ma anche convegni, incontri e giornate di studio che sottolineano l’importanza che per te ha la teoria. E per quanto riguarda i giovani critici? C’è a tuo parere un ritorno alla speculazione teorica o credi che vi abbiano totalmente abdicato?
Dalla mia generazione (che è l’ultima del critico “totale”) si è staccata la costola dei curatori. Sono aumentati i musei, le gallerie comunali, gli spazi espositivi. Quasi tutti questi soggetti però sono, come più volte li ho definiti, dei “filippini della critica”, che fanno pura e semplice manutenzione del presente. Ci sono ovviamente alcune eccezioni importanti, che vanno da Hans Ulrich Obrist a Mario Codognato, fino a Chiara Bertola e Carolyn Christov-Bakargiev, che a mio avviso hanno anche un atteggiamento che sembra inclinato verso la riflessione critica e teorica e che non sono unicamente preoccupati della gestione del contemporaneo, dell’attualità e del presente.
E per ciò che riguarda gli artisti? Oggi sembri spostare la tua attenzione più che altro sui sistemi emergenti… Cosa trovi in Cina che non c’è in Italia?
Ci sono attitudini diverse nel lavoro degli artisti europei e italiani, a seconda delle generazioni. Mi pare che dopo la Transavanguardia non ci sia più la possibilità di costituire un gruppo. Come diceva Carlo Giulio Argan, la Transavanguardia è l’ultima avanguardia possibile proprio perché constatava il passaggio a un’epoca in cui non c’era più sodalizio né solidarietà e gli artisti procedevano in fila indiana, come peraltro succede tuttora nel sistema dell’arte contemporanea in Occidente.
Per quanto riguarda l’Oriente, non esiste ancora un vero e proprio sistema completo così come lo avevo teorizzato e verificato. Gli artisti ci sono, come cominciano a esserci le gallerie e i curatori. Nascono nuovi musei, i media stentano ancora a prendere piede e c’è un pubblico che ancora non è educato completamente all’arte. E allora gli artisti cinesi in qualche modo sono più collegati tra loro, in quanto sentono di appartenere a una comunità di soggetti che hanno comuni intenti, una comunità di gusto e forse anche di vita.
Allora facciamo un gioco: se dovessi fondare una “costellazione” oggi, quali sarebbero i giovani artisti italiani che coinvolgeresti?
Non posso nemmeno pensarci. Non ci sono i presupposti di tipo teorico, né ci sono artisti capaci di invogliarmi a uno sforzo del genere in termini di astrazione.
Ma quali sono a tuo parere i caratteri comuni della nuova generazione nostrana?
Direi una ritrovata curiosità per la performance e una posizione post-concettuale.
Per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità di Italia, l’arte caccia fuori dal cappello Arte Povera e Transavanguardia. Perché?
Perché sono gli unici grandi movimenti italiani. E francamente non si tratta di una guerra tra bande. Ho sempre seguito molti artisti dell’Arte Povera e continuo a farlo, dialogando con loro a livello operativo, con mostre, testi e introduzioni. Quello che separa i due movimenti è la mentalità critica a monte. La mia è portata a una lettura interdisciplinare dell’arte, con una base storica. L’altra, invece, ha un atteggiamento, come dire, contestuale tuttora. Fermo al 1968. L’uso dell’aggettivo “povero”, unito a un sostantivo così opulento come quello di “arte”, denota un atteggiamento moralista, francescano, di un’arte urbana che si produce in un contesto come quello del Nord Italia.
La Transavanguardia è veramente a Sud dell’arte, in quanto torna a mettere a nudo l’artista. Usa le mani, senza avvalersi di protesi tecnologiche e allo stesso tempo non è frutto di ingenuità, dal momento che ha alle sue spalle una tradizione che si descrive attraverso la citazione di Leonardo da Vinci quando dice che la pittura è cosa mentale. Allora direi che questa complessità della Transavanguardia trova di fronte l’energia post-futurista dell’Arte Povera, che deve molto di più di quanto non sia stato scritto al gruppo Fluxus, ma con meno anarchia e situazionismo alle spalle.
Tempo di tagli. Quante sforbiciate ha avuto il tuo progetto delle mostre?
Non ci sono stati tagli, poiché ho lavorato subito in emergenza. Ho capito che dovevo assolutamente andare al sodo, all’essenziale, per realizzare gli eventi espositivi che volevo, abbattendo compensi, costi aggiunti, evitando feste inutili, andando all’osso nella comunicazione. Se vai a vedere, non c’è una pubblicità. E volutamente non c’è, perché, come si sta dimostrando, la curiosità che la Transavanguardia crea a livello sociale resta più forte e promuove attenzione.
È un messaggio per Luciano Ornaghi, il neoministro della cultura?
A lui consiglio di non fare tagli. L’arte e la cultura sono la nostra materia prima. Che prenda ad esempio altri Paesi, come la Francia, che ha rispettato il budget di previsione per la cultura. L’arte italiana viene da lontano e può andare ancora molto lontano.
Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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