C’è una bella differenza fra Italia e italiani
Fondazioni, sponsoring, fundraising. E cultura. Cervelli brillanti e in fuga. Pubblico e privato ancora più distanti. L'Italia, che ha dimenticato la cultura, vista dalla Svizzera sembra ancora più “complicata”. Meno male che ci sono gli italiani. Parola di Elisa Bortoluzzi Dubach, docente esperta di fondazioni e sponsoring.
Professoressa, in tempi di crisi il termine ‘filantropia’ che significato assume nel dizionario, soprattutto se parliamo di sviluppo culturale?
Significa il coraggio di assumersi in prima persona la responsabilità di promuovere la cultura, e non solo di finanziarla; significa spirito imprenditoriale nella ricerca di modelli sostenibili per la soluzione dei problemi, passione per la bellezza e convinzione che, senza cultura, una società non può chiamarsi civile.
Stando al rapporto 2011 delle Fondazioni Svizzere, il 13% delle fondazioni di pubblica utilità investe in cultura. In Italia, come ha evidenziato il rapporto de Il Giornale dell’Arte, sono le fondazioni bancarie a svolgere un importante ruolo in questo settore, con un 30% erogato nel 2008. Cos’è cambiato davvero a livello pratico e psicologico dal 2008 a oggi?
Il mondo è cambiato: la prima crisi finanziaria ha messo in discussione tutti i modelli di finanziamento che sembravano consolidati. La crisi attualmente in corso ha alzato ancora la pressione. Per le istituzioni culturali, ciò implica concretamente che, con il ridursi delle risorse finanziarie a disposizione, si assisterà a una concorrenzialità sempre più forte e alla crescita drastica dei requisiti e delle competenze richieste a chi si occupa di fundraising: una sfida per la sopravvivenza.
Dunque, solo aspetti negativi?
No. La disciplina dello sponsoring, viste le difficoltà, si sta reinventando. Abbiamo quindi bisogno di nuovi strumenti che consentano pianificazione, realizzazione e monitoraggio delle attività a prova di controller. E tutto ciò va benissimo: serve a dare la scossa a un ambiente che si era un po’ seduto. Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie sono poi esplose: si pensi ad esempio a un fenomeno come il crowdfunding. La filantropia ha preso un nuovo corso grazie a filantropi impegnati come Bill Gates, è diventata disciplina di studio in università di tutto il mondo e le cifre a livello internazionale dimostrano chiaramente che ci sono sempre più persone disposte a impegnarsi. Credo fortemente nella capacità degli operatori culturali di saper interpretare con creatività il mutamento, ma credo anche che i cambiamenti necessari siano possibili solo se la cultura a livello internazionale sarà capace di mettere in atto azioni di lobbying efficaci e sofisticate. Alle fondazioni in futuro verrà richiesta, da parte dell’opinione pubblica, una particolare sensibilità, la capacità di agire come motore di cambiamento sociale con un ruolo forte, complementare ma sempre più spesso propositivo rispetto a quello dello Stato. Dalla filantropia ci si aspetterà una funzione di advocacy strategica e mirata a favore della cultura.
In Svizzera il gettito di erogazioni corrisponde a circa 1,5 miliardi di franchi all’anno. Se a questi dati aggiungiamo 900 miliardi di franchi di patrimoni lasciati in eredità (CEPS – Centre for Philanthropy Studies, Università di Basilea), di cui una parte sarà sicuramente utilizzata a scopo filantropico, possiamo immaginare quanto possa essere importante questo mercato. Come le fondazioni di pubblica utilità e le istituzioni cooperano nella gestione di questo fiume di denaro?
Negli ultimi dieci anni si sono fatti dei passi avanti enormi: sono nati istituti universitari dedicati al tema, ci sono momenti di dibattito istituzionalizzato a cui partecipano anche i beneficiari delle erogazioni, si sono incrementati gli sforzi di cooperazione con il modo politico per produrre una legislazione efficace, è stato varato il primo code of good governance delle fondazioni a livello europeo, e la Svizzera è attivamente presente anche nel dibattito europeo. A livello delle singole fondazioni si assiste a un visibile sforzo nel venire incontro ai richiedenti, che si esprime con tutta una serie di strumenti operativi messi a disposizione in modo semplice e accessibile. Tutto questo è possibile grazie anche alle ridotte dimensioni del Paese, alla sua natura confederale e all’impegno di alcune figure carismatiche che guidano le associazioni di categoria e che stanno dimostrando una forte senso di responsabilità nei confronti di quanti, anche istituzioni culturali, sono colpiti dalla crisi.
In Italia, un pensiero dominante è che la crisi ha imposto delle priorità: prima viene la sanità (per la verità, prima ancora le pensioni), poi la formazione, poi i servizi sociali e le infrastrutture. La cultura, in tempi di recessione, viene guardata con diffidenza, come un lusso che non possiamo più permetterci. Lei che idea si è fatta?
Mi permetto di operare una differenziazione fra Italia e italiani. Ritengo che gli intellettuali italiani, gli uomini di cultura, gli artisti abbiano una ricchezza di idee, un grande patrimonio di entusiasmo ed energie e siano in grado di produrre contenuti che continuano a rendere il Paese competitivo a livello internazionale. Da italiana sono fierissima di essere cittadina di un Paese che genera cervelli e competenze di questo calibro. Diversa è la questione del “sistema cultura” in Italia, che soffre di una serie di fragilità strutturali: una burocrazia che atterrisce, la mancanza di una politica di valorizzazione del nuovo, un perenne stato di sfruttamento degli operatori culturali, mancanza di risorse finanziarie adeguate e così via. Il comune denominatore è la mancanza di una seria presa di coscienza che la cultura non è solo un patrimonio, ma un fattore economico e una opportunità.
Lo Stato deve assumersi le sue responsabilità: tagliare le finanze senza ottimizzare i processi è illogico anche in termini economici. Dimenticarsi che la cultura è una delle risorse più importanti per il turismo è una svista imperdonabile. Non comprendere che, se vogliamo che i nostri giovani possano competere con indiani e cinesi, ciò significa concretamente per noi forzare i soft factors, dare ai giovani l’opportunità di agire sull’identità del nostro Paese per svilupparne i vantaggi competitivi.
Salutiamoci con una nota positiva, e operativa, magari parafrasando il suo libro Lavorare con le fondazioni (Franco Angeli, Milano 2009). Due consigli agli operatori culturali interessati a collaborare con le fondazioni erogatrici. In tempi di magra.
Contano molto la professionalità e la reputazione del richiedente e la sua capacità di scrivere una richiesta che sappia coinvolgere anche emotivamente il destinatario e persuaderlo circa il potenziale di quanto sta valutando. Altro elemento fondamentale è l’approccio nei confronti del finanziatore: un rapporto serio e di lunga durata si costruisce sulla fiducia e sulla trasparenza, dall’inizio del progetto alla rendicontazione finale. Infine, non bisogna scordare altri parametri importanti, quali il rispetto dei tempi e una rendicontazione finale efficace, che parta da un budget realistico e attendibile. Ma la sola professionalità non basta. Servono creatività e perseveranza, coraggio e passione. Tutte qualità che chi opera nella cultura porta scritte nel suo Dna.
Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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