Il senso di uno studio visit. E di una residenza
Andrea Bruciati se ne inventa almeno una a bimestre. Ora, insieme a Eva Comuzzi, si parla di residenze, ma sono particolari, manco a dirlo. Con artisti messi tutti insieme e visite durante le prime fasi del lavoro. Questo sì che è un open studio. Ce lo racconta l’incursore Alessandro Facente, fra coloro che sono stati invitati a visitare i “Painting Detours”. Le sue impressioni e riflessioni le trovate qui.
Il dibattito quotidiano, la condivisione di idee e gli spunti di riflessione sono i primi e fondamentali benefici che gli artisti in residenza per Painting Detours possono ricevere da un contesto che li costringe per un mese a convivere a stretto contatto, con tutto ciò che comporta la divisione degli spazi di lavoro con leggeri teli in pvc.
Essere reciprocamente sottoposti al contatto ravvicinato rende la condizione in cui sono inseriti fertile a quel tipico dibattito tra artisti, basato sulla condivisione della sfera ideativa e produttiva che c’è dietro lo sviluppo di un’opera, rendendo la critica tra di loro più funzionale nel momento della sperimentazione, rispetto a quella che critici e curatori attivano per discutere la forza che l’opera, a lavori conclusi, è in grado o meno di trasmettere.
Quello che mi è apparso evidente nelle mie due giornate di studio visit del 17 e il 25 aprile è la sensazione di vicinanza tra artisti; ho sentito le temperature giuste di una comunità che può dialogare con un pubblico ampio anche di non addetti ai lavori, mettendo in campo l’ipotesi concreta di un inserimento, nel tessuto locale, di quegli argomenti tipici di un pubblico di settore, ma che in questo modo arrivano alla gente in maniera più snella rispetto a un linguaggio museale.
La lezione che impari stando vicino agli artisti è infatti l’unica che è realmente colma di quei significati e urgenze che parlano dell’uomo e vanno oltre l’oggetto prodotto o l’evento confezionato, toccando quella sfera personale che affonda le radici alle sue più intime necessità, debolezze e tormenti. Il messaggio che quindi carpisco dal modello su cui Andrea Bruciati ed Eva Comuzzi stanno lavorando, mi conduce all’importanza di seguire il pensiero degli artisti, imparare da loro per non smettere di ragione per idee. Tuttavia, in questa fase, l’addetto ai lavori, con le sue competenze, è un elemento ulteriore che può aiutare a dibattere sulla forza delle conclusioni a cui giungono.
Ma è incrementando le occasioni di dialogo e, nel nostro caso, il numero di residenze, rielaborandone ogni volta il format, che è ipotizzabile sensibilizzare le comunità, di giovani operatori, e costruire finalmente nel nostro sistema quell’approccio operativo, tipico internazionale, e affine alle pratiche laboratoriali, che determina la qualità sostanziale di un società efficiente che sa educare le nuove generazioni alle questioni umanistiche lasciando solo che crescano all’interno delle sue diffuse pratiche contemporanee.
Ecco che acquisire un modello come Panting Detours, solo per il fatto che offre all’artista l’opportunità di sviluppare la sua ricerca nella quotidianità di un contesto vivo, può diventare fondamentale nell’ampio discorso dell’educazione sociale, un messaggio interessante da recapitare alle piccole province che possono davvero fare la differenza rispetto alle grandi città.
Prendere parte ad un programma di residenza, dove l’assorbimento profondo del contesto può essere il punto di inizio del progetto che individualmente si penserà di sviluppare, è il contributo che l’artista, come figura sociale, viene chiamato a sperimentare su di sé per consegnare un lavoro la cui “narrazione” è la storia visionaria da raccontare per ricucire il divario, spesso ampio, fra arte e vita. Suggestioni, queste, che sono determinanti nel ruolo degli artisti oggi, e dare loro quest’opportunità significa spostare la questione da una ragione curriculare a una urgentemente legata all’utilità oggi dell’opera d’arte nella società. Ed è l’opera infatti l’obiettivo, come viene risolta, come si inserisce nel contesto in cui viene concepita, quanto corrode i dettami rigidi e speso ciechi della quotidianità dando, a sua volta, l’opportunità a chi farà visita di capire se stiamo di fronte l’esercizio di stile di un esecutore o il terremoto intellettuale di un artista.
Questo ci dà lo spunto per ragionare anche sugli aspetti più pratici di una residenza che ha le caratteristiche sostanziali per attrarre la curiosità degli addetti ai lavori, la cui attenzione viene catalizzata su chi in quel momento partecipa al programma e si sottopone all’onere del giudizio dei professionisti. Creare progetti di questo tipo, e aprirli alla visita collettiva, rientra a pieno titolo nella consuetudine dei sistemi stranieri dove è naturale la visita costante di curatori, critici, direttori di museo e galleristi che normalmente non faticano a girare per studi, al di là che questo rientri in un programma di residenza.
Ma ciò che più mi ha colpito è che il lavoro viene reso visibile nel pieno processo di esecuzione e ciò rende questa residenza progettualmente critica, perché sollecita il dialogo nel momento di debolezza, quando l’artista non ha ancora il lavoro finito ma tira fuori, lì dove c’è, il carattere e la verità della ricerca che però ha ben saldi in testa, predisponendo la questione a un livello squisitamente discorsivo, rendendo il progetto particolarmente speciale rispetto ai normali open studios che vediamo all’estero, dove la visione del lavoro avviene nella fase conclusiva, quando il concetto è entrato nella razionalità discorsiva del ragionamento assorbito.
Alessandro Facente
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