L’idea della distopia
Il capolavoro di George Orwell sta conoscendo una grande riscoperta. Forse dipende dal fatto che 1984 è davvero un libro terminale. Il libro terminale. Nel 1948, lo scrittore malato di tubercolosi componeva l’unico romanzo in cui la distopia si identifica totalmente e disperatamente con la fine del mondo: Winston Smith è “l’ultimo uomo”. O forse…
“Non lo avete ancora capito? Non sono io rinchiuso
qui con voi, siete voi rinchiusi qui con me!”
Rorschach in Watchmen (Zack Snyder, 2009)
“War is peace
Freedom is slavery
Ignorance is strength”
George Orwell, 1984 (1948)
Negli ultimi anni, il genere distopico ha conosciuto declinazioni certamente più leggere, ma non per questo meno radicali, rispetto al modello orwelliano. Murakami Haruki, in 1Q84 (2009), ne fornisce una malinconica e nostalgica interpretazione contemporanea. In V for Vendetta (Alan Moore e David Lloyd, 1982-85, trasposto al cinema nel 2005 da James McTeigue, sotto la produzione e supervisione dei “matrixiani” fratelli Wachowski), invece, la prospettiva di 1984 viene resa pop e sviluppata in chiave dichiaratamente ottimistica.
Il paradosso è solo apparente. Perché in fondo alle azioni e alle riflessioni di V c’è sempre e comunque la rivoluzione, il rovesciamento del sistema ostile e minaccioso che è la distopia realizzata (nella fattispecie dell’originale: il tatcherismo degli anni ‘80). E d’altra parte, l’appropriazione quasi ossessiva della maschera di Guy Fawkes in questi mesi da parte degli “indignati” di mezzo mondo ne è la testimonianza più lampante.
Sempre per restare in tema di graphic novel firmate Alan Moore, in Watchmen (realizzata con Dave Gibbons nel 1986-87 e portata sullo schermo vent’anni dopo da Zack Snyder), più sottilmente distopico è il nostro passato recente (il presente, quando l’opera fu composta): gli anni ‘80, sottoposti a una mutazione genetica che ne fa emergere più chiaramente il lato oscuro. La finzione, come al solito, rivela la realtà, e questa realtà è sempre storica.
Osservando dunque la produzione culturale recente, la distopia – come controllo sociale, come muro invalicabile che ci separa dalla realtà e dalla sua esperienza – è divenuta la vera mitografia contemporanea. Lì risiede la ragione del piacere che proviamo ogni volta che viene evocata: il controllo del mondo come ricreazione e ricostruzione del mondo stesso, e la sostituzione della finzione alla verità operata da un dispositivo gigantesco come spiegazione definitiva della nostra condizione attuale.
Se, fino a pochissimo tempo fa, il thriller rappresentava la soddisfazione immaginaria della paranoia collettiva, e il complotto era ancora la chiave interpretativa di tutto, oggi non è più così. Il complotto, la cospirazione sono stati sostituiti – o meglio, hanno compiuto un passaggio ulteriore, evolutivo. Non è un caso che alcune delle narrazioni culturali più impressionanti e stimolanti degli ultimi anni si basino esattamente sulla simulazione di un sistema concentrazionario, per poi trasferirne l’effettività direttamente nella psiche del protagonista. Nella sua percezione della realtà. Pensate, ad esempio, a Shutter Island (Dennis Lehane, 2003 e Martin Scorsese, 2010), e a The Ward (John Carpenter, 2010).
Il punto d’origine di questi racconti sulla condizione umana è sempre quello, antichissimo e nuovissimo: il “mito della caverna”, introdotto da Platone nel VII libro de La Repubblica. Il protagonista che si libera dalla prigione illusoria scambiata per la realtà, e cerca senza successo di liberarne i suoi fratelli, è THX1138; è Truman; è Neo; è Edward “Teddy” Daniels/Andrew Laeddis; è Kristen/Alice Hudson: “E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più acutamente gli oggetti che passavano e si ricordasse meglio quali di loro erano soliti venire per primi, quali per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse con la più grande abilità quello che stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e invidierebbe chi tra loro fosse onorato e potente, o si troverebbe nella condizione descritta da Omero e vorrebbe ardentemente ‘lavorare a salario per un altro, pur senza risorse’ e patire qualsiasi sofferenza piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere in quel modo?”
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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