Lunedì 27 febbraio, la direzione del museo che ospita la rassegna – la cui apertura è stata, come avviene ogni due anni, il 1° marzo, mentre la chiusura risale a ieri – comunicava infatti che i due maggiori sponsor della mostra, Deutsche Bank e Sotheby’s, erano stati dismessi, e se ne scusava con gli artisti. Il comunicato sul sito web ufficiale sosteneva che “la condotta aziendale dei due sponsor ha reso impossibile per il Whitney Museum proseguire oltre una partnership con essi”. E precisava:
“Il Whitney troverà il modo di aprire la Biennale 2012, nonostante la difficile decisione del Museo di rompere con i due sponsor principali. Purtroppo, il Whitney aveva stipulato un contratto di sponsor con Sotheby’s prima che la casa d’aste licenziasse 43 dei suoi gestori d’arte sindacalizzati dopo che il loro contratto era scaduto nel luglio 2011. Lo scorso anno Sotheby’s ha realizzato vendite da record con profitti superiori a 100 milioni di $, e solo la paga del CEO è stata raddoppiata a $ 6 milioni. Eppure, Sotheby’s ha cercato di interrompere il lavoro organizzato riducendo alla sottomissione i propri lavoratori chiudendoli fuori dei loro posti di lavoro e lasciandoli senza stipendio da agosto; questi lavoratori e le loro famiglie hanno perso l’assistenza sanitaria alla fine del 2011”.
Per quanto riguarda Deutsche Bank (che Art in America ha definito proprietaria della “più grande collezione aziendale d’arte nel mondo”), il Whitney spiega che la speculazione “spericolata e la finanza fraudolenta da parte di banche come Deutsche Bank ha creato enormi costi sociali in termini di posti di lavoro persi, risparmi e abitazioni. Il Whitney non vuole che la sponsorizzazione della Biennale da parte di questa banca distragga da questi fatti gravi, e così si trova costretto a terminare il contratto di sponsorizzazione”.
Una presa di posizione coraggiosa, non c’è che dire; peccato solo che non fosse vera. Prima che ci si rendesse conto che tutto quanto era una bufala, la notizia ha però fatto in tempo a fare il giro del web, suscitando una miriade di reazioni. Alcuni hanno parlato di uno scherzo organizzato dagli attivisti di Occupy Wall Street, ma finora nessuno sa esattamente chi sia stato ad architettare una beffa mediale di simili proporzioni. Una cosa comunque è certa: tra i 50 artisti che prenderanno parte alla Biennale del Whitney, il migliore è senza dubbio l’anonimo che ha pensato e realizzato questo “falso d’autore”. Il motivo è presto detto: l’anonimo ha infatti saputo “occupare” il territorio mediale di una grande istituzione artistica rivoltandone il senso contro essa stessa. È infatti divenuto di dominio pubblico il fatto che la Biennale del Whitney, nota a livello internazionale per il suo radicalismo politico, è costretta, per esistere, a chiedere fondi a due tra le realtà più istituzionali del neocapitalismo globale.
Questo piccolo episodio ricorda da vicino una beffa assai più audace realizzata nel 2004 dai mitici Yes Men, un duo attivista/provocatore che ha creato operazioni indimenticabili, superiori al 99% delle cosiddette “opere d’arte impegnata” di nessun valore da cui siamo sommersi. Il 3 dicembre 2004, un esponente degli Yes Men, Andy Bichlbaum, riuscì a comparire al telegiornale della BBC World spacciandosi per il portavoce ufficiale della multinazionale Dow Chemicals. Come qualcuno forse ancora ricorda, la Dow Chemicals è proprietaria della Union Carbide, azienda responsabile del disastro di Bohpal, in India, una delle più grandi catastrofi colpose della storia, avvenuta nel 1984, costata la vita a 18mila persone e causa di oltre 120mila feriti, e di cui, nel 2004, ricorreva il ventennale. In modo del tutto sorprendente, Bichlbaum (sotto falso nome) chiese scusa per il disastro provocato, promise che la Dow avrebbe dismesso la Union Carbide e dichiarò che avrebbe impiegato il ricavato per bonificare l’area e curare i malati. Nelle poche ore che seguirono questo annuncio, prima che fosse ufficialmente smentito dalla Dow, la compagnia accusò una perdita azionaria fino a 2 miliardi di dollari.
Avendo “fatto dire” alla Dow Chemicals quello che la stessa Dow avrebbe dovuto dichiarare già da tempo (l’accettazione delle responsabilità, il proprio pentimento per l’accaduto, e la promessa di riparare al danno perlomeno con una donazione in denaro), gli Yes Men hanno saputo rendere palese il doppiofondo che sta alla base del profitto e, al contempo, hanno evidenziato il carattere di “finzione” dell’economia attuale.
Così, l’abile hacker che ha contraffatto il sito del Whitney non ha solo creato un po’ di scompiglio nel mondo dei media, ma ha saputo far intravedere la falsità di fondo della posizione “culturalmente” nobile, radicale, “impegnata” dei curatori e degli artisti della Whitney Biennial e, contemporaneamente, ha mostrato il carattere “puramente mediatico”, immaginario, “ideologico” di un simile “impegno” artistico. Non è forse anche da azioni come questa che occorre ripensare il ruolo “oggettivo” (per riprendere l’obsoleto gergo marxista) dell’arte nelle società contemporanee?
Marco Senaldi
illustrazione di Antonia Carrara
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
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