“Cosa vedi?”. Con questa battuta inizia Rosso, l’opera teatrale scritta nel 2009 da John Logan, che dopo il grande successo di pubblico e critica giunge in Italia per la regia di Francesco Frongia nell’ottima traduzione di Matteo Colombo.
Ed è proprio l’interrogativo legato al vedere, e ancor più al punto di vista dell’artista, ciò che nella sua semplicità contraddistingue il nucleo caldo di Rosso, da questa felice intuizione dell’invitare lo spettatore a condividere il privilegio e il rischio di guardare Rothko attraverso Rothko.
Lo spunto biografico individuato da Logan per tessere la trama narrativa riguarda la grande serie di dipinti che furono commissionati al pittore come fregio decorativo dei grandi spazi del ristorante Four Seasons di New York, all’interno di uno dei palazzi più distintivi e sofisticati della città: il Seagram Building progettato da Mies van der Rohe e Philip Johnson sul finire degli Anni Cinquanta.
Per quell’incarico Rothko produsse tre serie complete di grandi tale, 40 in tutto, con la predominante del rosso cupo. Tuttavia, per motivi che mai furono chiariti, il pittore si rifiutò di consegnarli alla committenza e li custodì nel suo archivio per anni e oggi risiedono sparsi in tre diversi musei tra Inghilterra, America e Giappone. Sullo sfondo di tale rifiuto si inanellano tutte le dinamiche che coprono l’ora e mezza di spettacolo: il tormento, la creazione, i dubbi, gli interrogativi che, supportati da elementi biografici e studiando la “persona” Rothko (interpretato da Ferdinando Bruni), portarono l’artista a opporre tale rifiuto.
Ma non solo, l’espediente narrativo di affiancare a Rothko il giovane assistente appena assunto, Ken (Alejandro Bruni Ocaña), offre la possibilità di mettere in scena un dialogo tipicamente socratico tra maestro e allievo che, nel testo di Logan, lambendo il didascalico riesce invece a fissare puntualmente i “colori primari” dell’esperienza umana e artistica.
C’è tutto nel dialogo tra Rothko e Ken: tutta la storia dell’arte moderna occidentale come la conosciamo, niente è sottaciuto ma messo in evidenza come una vera e propria lezione generazionale e talvolta fatale sul senso della creazione artistica moderna e sul pensiero che l’ha modellata.
Nietzsche, Freud, Jung, Shakespeare, Kerouac: sono solo alcuni dei nomi che il protagonista snocciola in questo lungo dialogo, intenso e disperato, tra una generazione che sta per nascere (quella della Pop Art) e l’altra che inevitabilmente sente la sua fine. La fine, come ineluttabilità, come tragedia è uno dei tanti significati che il rosso assume: la fine dell’amico-antagonista Jackson Pollock, la fine dell’Espressionismo astratto e il porre la fine alla propria esistenza, mostrata con il flash forward del suicidio stesso di Rothko.
Se questi sono i temi che guidano qualsiasi tentativo di confrontarsi con il testo teatrale, a essi si aggiungono poi una quantità di sfumature che fanno di Rosso una sintesi estetica e filosofica che indaga non soltanto il circoscritto campo dell’arte e dell’artista americano, ma più generalmente le pulsioni creative e distruttive dell’uomo. Non è un caso che il protagonista evochi più volte la Nascita della Tragedia, e su tale distinzione tra dionisiaco e apollineo si svela forse la parte debole di questa messa in scena milanese: nonostante i notevoli sforzi di Ferdinando Bruni, questo Rothko sembra aggettivato e spinto da una tensione tutta dionisiaca più che apollinea, sovrastando quell’aspetto tutto mentale, colto e meditativo che è la materia prima dell’opera pittorica del maestro dell’espressionismo astratto.
Rosso è anche una splendida galleria di spazi. Spazi fisici, spazi evocati, che ne alimentano la densità illusiva e la capacità di proiettare gli spettatori in ambienti carichi di fascino e segni fortissimi: il glamour del Seagram Building, lo studio dell’artista sulla Bowery (puntualmente ricreato nelle scenografie di Nando Frigerio), i musei, il ghetto ebraico e la Biblioteca Laurenziana a Firenze. Fino al sogno di uno spazio sacrale come unico luogo possibile per custodire le tele del pittore: la Rothko Chapel a Houston.
“Cosa vedi?”. L’interrogativo, ripetuto fino alla fine, con quell’urgenza che lascia trasparire sia speranza che disperazione, è il leitmotiv di tutto il testo, il precipitato di quell’intensità dello sguardo e della visione, ma anche uno strumento con il quale Logan tenta di svelare il grande enigma “Rothko” che ancora oggi, nel mondo dell’arte e delle aste genera interesse e appetiti smodati, sollevando più interrogativi che risposte.
Riccardo Conti
Milano // fino al 3 giugno 2012
John Logan – Rosso
Regia di Francesco Frongia
TEATRO DELL’ELFO
www.elfo.org
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