“Alterare l’ordine delle cose stabilite per fare cose nuove”: è la definizione di ‘innovare’. L’Italia in questo ha la sua leadership. Non ha mai conosciuto rivoluzioni, ma il suo tessuto umano quotidianamente – combattendo anche con il proprio sistema sociale – innova e si rinnova. La posata e costruttiva reazione sociale alle attuali riforme è la dimostrazione più attuale. La visione individuale, che si trova in tanti imprenditori, ricercatori, artisti, intellettuali, fatica a diventare un’intelligenza collettiva, a tradursi in una visione politica che produce cambiamenti sociali. L’italiano va per somma e non per moltiplicazione.
È l’altra faccia del fermento che caratterizza le eccellenze degli individui. Nell’agorà globale, abbiamo bisogno di fare uno scatto collettivo, che deve avere come risultato il cambiamento del sistema nella sua interezza. Un catalizzatore può consistere nel portare innovazione nella cultura, l’unica in grado di farci capire la cultura dell’innovazione e quindi capace di massificare il cambiamento, la consapevolezza che viviamo in un’era collettiva e globale.
L’innovazione nella cultura significa percepire il patrimonio storico come un punto di partenza e non di arrivo. La tutela è un presupposto, non un risultato. L’Italia ha anche troppo patrimonio: costa manutenerlo, proteggerlo dal tempo e dalle persone. Ci si deve aggiungere poi la valorizzazione, che oggi si limita alla sola messa a disposizione del pubblico. La partita invece è innovare. Sentire e non solo “dire” che il nostro made in Italy è grande perché si arricchisce della stratificazione dell’eccellenza creativa. Significa crederci, spostare l’obiettivo sul futuro e il baricentro sul presente, tenendo come riferimento il passato. Significa creare il nuovo, nel modo di fare e nelle cose che si fanno.
Oggi l’offerta culturale è sostenuta principalmente dalla finanza pubblica, che continua a guardare indietro. Il settore privato che si occupa di cultura procede col freno a mano tirato e si sente abbandonato. Se la prospettiva comune fosse la produzione di contenuti, col riferimento della nostra storia e la vista puntata sul futuro, allora sì che diventeremmo un leader culturale mondiale. Per ora siamo solo un presepe.
Fabio Severino
vicepresidente dell’associazione economia della cultura
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
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