Quei vecchi film educativi
Una laurea in Filosofia Teoretica, un inizio tardo, l'inattesa selezione al primo tentativo per una residenza, l'assistenza a suoi colleghi artisti, poche opere all'attivo e una sola mostra personale, a cui ha dedicato svariati mesi di preparazione. Francesco Bertocco mette mano alla Storia, quella collettiva con la s maiuscola, attraverso i cosiddetti educational films. Ma anche a quella di famiglie anonime, mettendo in scena vere e proprie sedute di psicoanalisi.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Sto leggendo Le nevrosi di Joseph B. Furst, un saggio del 1960 sul rapporto tra nevrosi e società, partendo dalle letture di Fromm e Freud. Ho finito di leggere Retromania di Simon Reynolds, un ritratto delle nostre pulsioni a ricreare e rileggere il nostro passato culturale. Ultimamente sono molto legato alle prime ricerche di musica elettronica, in particolare al lavoro di Luciano Berio e Bruno Maderna. Ma anche Klaus Schulze, Amon Düül II, Wendy Carlos, Brian Eno, Philip Glass e Bobby Beausoleil. Tra i nuovi, Nico Muhly e Oneohtrix Point Never.
I luoghi che ti hanno affascinato.
Le alte dune del Sahara, viste in età molto suggestionabile.
Le pellicole più amate.
Penso subito al cinema di Polanski, in particolare a L’inquilino del terzo piano. Poi, la maggior parte delle pellicole di Derek Jarman, Robert Beavers, Gustav Deutsch, Gregory J. Markopoulos e Hamony Korine. Due film a me molto cari sono Un chant d’amour di Jean Genet e Pink Narcissus di James Bidgood.
Artisti guida.
Ho iniziato a seguire molto da vicino il lavoro di Harun Farocki, Yervant Gianikian/Angela Ricci Lucchi, Walid Raad e William E. Jones. Degli artisti più giovani trovo interessante il lavoro di Simon Fujiwara, Leigh Ledare, Luke Fowler, The Otolith Group, Ben Rivers, e alcuni film di Cyprien Gaillard.
Hai messo mano su vecchi educational films. Con quali interventi e obiettivi?
Gli educational films erano brevi film americani, diffusi durante la guerra fredda in ambienti di carattere educativo e propedeutico (scuole, associazioni). Una delle funzioni principali era educare le nuove generazioni a seguire determinate regole comportamentali in caso di incidente, pericolo o guerra. Questo sistema di paura/prevenzione generava un condizionamento ottico nel pubblico di allora e, di conseguenza, nelle generazioni successive. Mi interessava isolare all’interno di questi filmati l’elemento critico specifico di ciascuno di essi, ripeterlo fino a renderlo ipertrofico, come un organismo che si riproduce solo attraverso le sue funzioni vitali. Il risultato è una sorta di collasso dell’intuizione originaria (lo stato di tensione/allerta) fino a un completo paradosso.
Da tempo indaghi le dinamiche familiari, raccogliendo testimonianze video degli Anni Ottanta di sedute di psicoanalisi di gruppi familiari. Perché?
Il nucleo familiare è un sistema complesso e multiforme, che contiene una molteplicità di aspetti che permettono di indagare a fondo le diverse manifestazioni della società in cui viviamo. Mi interessa osservare le relazioni che sono alla base della nostra formazione, i diversi riscontri con quella che si può definire “storicità emotiva”. C’è nella famiglia qualcosa di indefinibile ed estremante critico. Osservarla attraverso la psicologia mette in luce una sorta di drammaturgia del quotidiano, che altrimenti resterebbe racchiusa ai soli membri.
Per la tua prima mostra personale hai messo in scena una seduta di psicoanalisi di una famiglia milanese. Gli spettatori potevano osservarla solo dall’esterno della galleria. Come nasce e si sviluppa questo lavoro video-performativo?
C’era la volontà di portare in galleria la stanza di una clinica dove vengono svolti i focus group. Ho cercato di essere il più fedele possibile: dalle sedie al tavolo, fino a rivestire le pareti della galleria in vetro specchio. La famiglia all’interno non aveva nessun contatto con il pubblico al di fuori. È stato un momento particolarmente intenso. Per la famiglia era la terza seduta, e la loro disponibilità a renderla pubblica in questo modo per me è stato un fattore indispensabile.
Lavori col found footage e con gli archivi, un fenomeno diventato di tendenza non solo nell’arte. Perché questa scelta?
Lavorare sugli archivi per me è stata una parte importante nella mia ricerca, un percorso iniziale che mi ha portato verso questo tipo direzione. Penso che sia una questione di rotta e di contingenze. Non la vedo ora come una priorità. Il mio prossimo lavoro sarà un documentario, una versione più estesa delle potenzialità della psicoanalisi applicata ai gruppi familiari. È vero che molti artisti ne fanno un uso/abuso. Penso che l’obsolescenza sia un canto di sirena, più lo si ascolta da lontano, ben saldo nella nostra attenzione, più ci si salva dal suo fascino, a volte un po’ fatale.
Hai svolto una residenza alla Spinola Banna. Cosa hai tratto da quell’esperienza e dall’incontro con Leigh Ledare?
È stata un’esperienza incredibile, il confronto con i miei colleghi di residenza e il percorso svolto con Leigh Ledare hanno avuto un forte impatto sul mio lavoro.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
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